SOGNO A STELLE, STRISCE E PLACARD

“PROGETTO MUNER NYC”, ecco cosa abbiamo visto proiettato sulla lavagna al posto di un’equazione di fisica in un ordinario martedì di novembre.

Già solo nominare la “Grande Mela” attira l’attenzione di tutti, ma dopo la presentazione l’entusiasmo sale alle stelle. Otto giorni a New York per visitare la città ed avere un’esperienza unica all’ONU come un vero delegato.

Mesi e mesi di preparazione, incontri formativi e urgenza di passaporti. Poi finalmente arriva il giorno della partenza: dogana e controlli superati, arriviamo a Roma, per poi giungere in otto ore al JFK, dove ci aspettavamo una struttura meravigliosa e invece sembrava di essere in un ospedale. Fortunatamente la sosta lì è durata poco. Appena siamo usciti dal gate sembrava di essere stati catapultati in un telefilm, solo che il freddo, il rumore e la puzza erano reali, così anche la presenza della neve. 

Dopo cinquanta minuti di autobus siamo giunti in hotel, con gli occhi languidi per lo stupore e la meraviglia scaturita dalla visione della City, ma anche per il sonno e l’estrema stanchezza.

Non auguro a nessuno di salire 35 piani in ascensore in 5 secondi, dopo un viaggio intercontinentale: le orecchie sembravano scoppiare, ma per la vista dalla stanza 3536 ne è assolutamente valsa la pena.

La prima sera posso descriverla con tre parole: wow, wow e wow. Davvero non sembrava reale, ma eravamo lì ed eravamo più che mai pronti a vivere la città.

Chilometri di camminata, Central Park innevata, il Museo di Storia naturale e il MET, il cibo spazzatura, i dollari, le tasse non aggiunte al prezzo iniziale e scoiattoli, molti scoiattoli, troppi scoiattoli.

Il primo giorno è terminato con una cena a base di tutto fritto, con un contorno di sale all’aglio (il mio stomaco e il mio alito ancora pretendono un risarcimento), che però non hanno avuto impatto negativo sui nostri volti, dopo aver visto le mille luci di Times Square di notte: erano così tante che il cielo buio era irrilevante, sembrava mattina, solo che la luminosità proveniva da tanti piccoli soli sparsi sui grattacieli.

Il secondo giorno è iniziato con la salita in cima all’Empire State Building, che tutto ha fatto tranne che deludere: vista mozzafiato e occhi a cuoricino per tutto, eccetto che per la Trump Tower, che ha comunicato solo egocentrismo e patriottismo, benché avesse un ottimo Wi-Fi.

I successivi due giorni sono stati impegnati nelle prime simulazioni nelle sale dell’hotel. Dopo alzate di placard (un cartoncino con sopra scritto il nome del paese che rappresentavamo, per votare serviva sollevarlo) e svariate alleanze, abbiamo stilato delle soluzioni al problema dato, che poi abbiamo proposto all’intera commissione nel palazzo dell’ONU. Abbiamo ascoltato il discorso di Martin Luther King III, già con un sapore amaro in bocca, sapendo cioè che la nostra permanenza nella City sarebbe terminata a breve.

Il sesto giorno abbiamo fatto una visita alla Lady di ferro (la Statua della Libertà) che, non per fare body shaming, mi aspettavo più alta; siamo poi saliti sul ponte di Brooklyn. Scesi dal ponte siamo passati da Little Italy, dove tutto abbiamo trovato tranne che gli italiani.

L’ultima cena l’abbiamo trascorsa in una stanza, tra risate e lacrime generali, con tutte le persone che hanno reso la vacanza speciale, perché si può andare in vacanza in qualsiasi posto, ma senza le persone giuste anche New York può sembrarti una bettola…

Emma Di Bari (Liceo delle Scienze Applciate Margherita Hack)

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