Attenti a non cadere nella rete!!

Inutile negarlo: ormai quasi tutti siamo degli Internet Addicted, sempre connessi alla rete, con smartphone o tablet, seduti davanti ad un computer, distesi sul divano con in mano il telecomando della nostra TV multimediale. Oppure siamo chiusi nella nostra cameretta, con cuffie e microfono ed in mano un joystick, per rilassarci dopo una giornata di studio giocando online al nostro videogame preferito in compagnia di perfetti sconosciuti sparsi in ogni angolo del mondo. Loro, però, fanno parte della nostra “squadra”, stesso “team”, con un nickname di fantasia, coinvolti in una frenetica sessione dello sparatutto più alla moda, legati a noi da un’ “amicizia virtuale” che, ormai, ha preso il posto dell’amicizia vera, quella che nasce dalla frequentazione, dal crescere insieme, dal condividere esperienze che resteranno per sempre nella nostra memoria.

Siamo la generazione dei “followers”, dei “like”, di Instagram e TikTok: ci addormentiamo per sfinimento, guardando video su Youtube, con la sveglia già programmata sul cellulare. Al mattino, ancor prima di aprire gli occhi, siamo già con lo smartphone in mano, a controllare le notifiche dei social, a leggere le notizie del giorno o consultare il meteo per sapere se pioverà oppure no. La nostra giornata prosegue, poi, davanti allo schermo di un tablet o del grande monitor tv, che da tempo ha sostituito la lavagna. Se i professori ci interrogano, il nostro voto diventa un numero scritto sul registro elettronico. Per vedere che compiti ci hanno assegnato, non consultiamo il diario, ma un’app sull’iPad. Non abbiamo mai visto un’enciclopedia in vita nostra, ma Wikipedia sappiamo benissimo cosa sia. Per cercare il significato di un vocabolo non perdiamo tempo a sfogliare un dizionario, ma ci basta pronunciare la formula magica “Hey Google” oppure “Hey Siri”. E le nostre presentazioni multimediali, con tanto di colonna sonora, video, foto, sfondi colorati, transizioni tra le slide, sono degne di un Oscar cinematografico se paragonate alle “vecchie” ricerche, fatte di pagine e pagine scritte a mano, abbellite al massimo da un disegno o da qualche immagine ritagliata ed incollata.

Connessi ad Internet e con il nostro smartphone tra le mani, ci sentiamo onnipotenti: crediamo di avere il mondo intero a nostra disposizione, ci sembra di essere liberi… Ci sembra… ma in realtà quella che consideriamo libertà altro non è che una vera e propria schiavitù, una “dipendenza” a tutti gli effetti. Molti di noi, infatti, non riuscirebbero più a fare a meno del proprio smartphone, non saprebbero più vivere senza essere connessi ad Internet, allo stesso modo in cui un tossicodipendente non potrebbe fare a meno della sua dose di droga o un alcolizzato starebbe male se non bevesse il suo drink. Così, senza nemmeno accorgercene, siamo già, o siamo inevitabilmente destinati ad esserlo, tutti affetti da IAD (Internet Addiction Disorder), ovvero la sindrome causata dalla dipendenza dalla rete e dall’utilizzo dei dispositivi ad essa connessi. Una “dipendenza”, infatti, non deriva necessariamente dall’assunzione di droghe o alcool, ma può anche essere “comportamentale”, cioè associata a normalissime attività socialmente accettate, come, ad esempio, fare acquisti, mangiare, dedicarsi allo sport, usare le tecnologie, nel momento in cui tutto questo avvenga in modo esasperato. Infatti l’utilizzo eccessivo e compulsivo di Internet e dei dispositivi con cui siamo connessi alla rete può portare, come del resto ogni altra forma di dipendenza, ad una serie di conseguenze negative sulla nostra salute mentale, sociale e fisica.

Le cause di questa “subordinazione” possono essere diverse, ma spesso sono legate all’ansia, alla depressione, alla solitudine, alla mancanza di autostima o alla ricerca di gratificazione immediata. Così i giochi virtuali, i social network, le chat, lo shopping online, possono diventare fonti di assuefazione, in quanto forniscono un’illusione di controllo, soddisfazione ed appagamento immediato. La dipendenza da Internet può avere conseguenze anche gravi, portando all’isolamento sociale e causando problemi di salute mentale o difficoltà nell’apprendimento. Infatti, una persona che passa gran parte del suo tempo sulla rete tende ad isolarsi sempre più dalla vita reale, evitando di incontrare anche amici e familiari; difficilmente tende a concentrarsi nello studio o sul lavoro, perché la sua mente è costantemente orientata a pensare a ciò che sta accadendo online; si sente ansiosa o stressata quando non è connessa ed avverte un bisogno sempre più forte ed incontrollabile di “collegarsi”; trascura il proprio benessere e tende a privarsi anche del sonno, trascorrendo molte ore al giorno online, spesso fino a tarda notte; rischia di accumulare debiti, facendo shopping o scommettendo online.

È chiaro che coloro che già vivono una situazione di disagio e le persone emotivamente più fragili possono facilmente diventare dipendenti da Internet e venire risucchiati in quel mondo affascinante ma “oscuro”, qual è il web. Per fare un esempio, qualche anno fa si parlava della pericolosità di un gioco online, noto come “Blue Whale”: una competizione “mortale”, articolata in cinquanta livelli, ciascuno con una prova da superare, ovviamente di difficoltà sempre crescente, fino ad arrivare all’ultimo livello, in cui, per dimostrare il proprio valore, il concorrente avrebbe dovuto suicidarsi. A Bari, per fortuna, la Polizia riuscì a salvare in extremis una tredicenne coinvolta proprio in questo stupido passatempo pericoloso, grazie alla segnalazione di alcune amiche di chat. Dalle indagini emerse che la ragazza, da qualche mese, trascorreva molto tempo al cellulare, andando a letto anche a tarda ora, ed era diventata particolarmente taciturna; nell’ultimo periodo, inoltre, raramente usciva di casa; si era fatta dei tagli sulle braccia con la lametta di un rasoio, dicendo ai genitori di essere stata graffiata dal gatto; pubblicava sul suo profilo Instagram immagini angoscianti e scriveva sul suo diario scolastico frasi che rivelavano il suo malessere interiore. Questo ci fa capire quanto la dipendenza da Internet possa essere pericolosa. E trattandosi di una “dipendenza”, venirne fuori non è certamente cosa facile.

La tecnologia deve facilitarci la vita, non renderci schiavi e le amicizie online non possono e non devono soppiantare le amicizie reali. Ovviamente, affinché ciò diventi possibile, dobbiamo essere noi a capire che dei nuovi dispositivi e di Internet dobbiamo farne buon uso, non un abuso, cercando di trovare il giusto equilibrio e mantenendo uno stretto contatto con la vita reale per non rischiare di essere risucchiati dal mondo virtuale. Perciò io credo che, per evitare di diventare anche noi dipendenti dalla rete, dovremmo innanzitutto limitare il tempo che trascorriamo ogni giorno online. Dovremmo, poi, focalizzarci sulla vita quotidiana, dedicando maggior spazio allo sport, alla lettura, alla musica, cercando di socializzare con amici e familiari. Sarebbe importante anche stabilire delle routine per le nostre giornate e, di conseguenza, anche per le nostre attività online, fissando orari ben precisi da rispettare rigorosamente. E, se proprio non siamo in grado di vincere da soli la nostra dipendenza, chiediamo aiuto a dei professionisti per venire fuori da quel tunnel in cui ci siamo cacciati e per riuscire a riprendere, finalmente, il controllo della nostra vita. Utenti competenti e responsabili, e padroni delle nostre scelte.

Niccolò Lorusso

immagine in copertina di Eliana Delzotti

Origami: colore, arte, passione

La passione per l’arte degli origami tridimensionali di un ragazzo del nostro liceo Hack 

Quando è nata la tua passione per questa tipologia di arte abbastanza insolita per un giovane della tua età?

“La nascita della mia passione per gli origami nasce nel periodo del Lockdown, il periodo più tragico della pandemia che abbiamo attraversato nel 2020, nel quale un po’ tutti abbiamo dovuto trovarci un che da fare per trascorrere le giornate e per non annoiarci, vista la reclusione forzata che abbiamo dovuto rispettare a tutti i costi per far fronte a quel problema che si è abbattuto sulle nostre vite in modo del tutto repentino e inaspettato.”

“Mia madre mi racconta che sin da piccolo ho sempre avuto un rapporto particolare con tutto ciò che fosse di carta, sin da quando realizzavo delle piccole palline per buttarle nella lavatrice. Mi divertiva molto maneggiare questo materiale, poter sfogare quella che era la mia frenesia da fanciullo con un pezzo di carta.”- “Penso che sia nato tutto da lì, alla fine tutto quello che facciamo da piccoli, anche se in modo molto inconscio, è in realtà rivelatore di quelle che possono essere le nostre attitudini o di quello che adoriamo, e mi piace pensare che la cosa non sia nata così, all’improvviso, ma che sia un qualcosa di già previsto nel mio “disegno”.

Come hai risvegliato in te questa attitudine?

“Ovviamente, come si può ben pensare, crescendo non ho avuto grandi occasioni per utilizzare questa mia manualità, se non a volte alle scuole elementari, durante la realizzazione di alcuni lavoretti per le feste della mamma o del papà. É accaduto però che durante la reclusione forzata portata dalla pandemia, ho iniziato a creare le prime figure con la tecnica degli origami tradizionali, come per esempio dei gatti o dei dinosauri, fino a giungere ai miei primi “Book folding” (per i quali ho utilizzato dei vecchi libri o delle vecchie agende che non mi servivano più, piegandone le pagine e facendo in modo da realizzare delle composizioni geometriche o anche dei veri e propri vasi).”- “ A casa non c’è stato mai nessuno che mi ha insegnato come piegare la carta affinchè si potesse pervenire ad un soggetto finale come quello degli origami, dunque ho appreso ciò mediante la visione di alcuni video tutorial su Youtube. Accadde quindi che nello stesso anno, intorno a dicembre, mi comparve per la prima volta un video sempre su questa piattaforma online che mostrava come si potevano realizzare dei soggetti più particolari: dei cigni. Tuttavia questi avevano un qualcosa di diverso, ovvero la loro tridimensionalità, ottenuta incastrando tra di loro tantissimi pezzi di carta, piegati uno ad uno. Ciò li rese ai miei occhi come qualcosa di veramente affascinante.

Decisi dunque che mi sarei cimentato nella piegatura di questi pezzi, che erano circa 300, e che avrei tentato di realizzarne uno, anche se sapevo che si trattava di un’attività che avrebbe richiesto tanta precisione e dedizione. Ma siccome sono sempre stato un tipo che quando si mette in testa un qualcosa o un obiettivo, fa di tutto pur di ottenerlo o di raggiungerlo, iniziai a seguire quel tutorial, armandomi di tanta pazienza.”

Riuscisti a realizzare questo cigno?

“Dopo diversi mesi (il lavoro fu molto rallentato per via dei tempi scolastici, che mi impegnavano tanto), intorno a luglio, realizzai il mio primo cigno di carta tridimensionale. 

Ero felicissimo, rimasi fortemente stupito da me stesso per quello che avevo fatto e decisi che avrei dovuto a tutti i costi sperimentare altri soggetti, sempre con la stessa tecnica, perché mi ero molto divertito la prima volta.”

“Mi impegnai nella realizzazione di un’ara macao, di un pulcino, di un pavone…divenendo sempre più veloce nella realizzazione.

E più ne facevo, più avevo voglia di farne”

C’è stato qualcuno che ti ha fatto pensare che avresti potuto iniziare a vendere questi manufatti?

“Fino a questo momento, quindi fino a fine dell’estate, rimase qualcosa di puramente ludico, un qualcosa che sapevo fare, che mi piaceva e che mi faceva stare bene…

Ma nulla di più. Accadde poi che iniziai a mostrare questi lavori ad alcune persone, fino a quando un’amica di mia madre, vedendoli, rimase molto impressionata, tanto che mi chiese se avessi potuto realizzare dei crocifissi per la Confessione del figlio, che avrebbe utilizzato come piccoli pensieri da distribuire. Ecco, quella è stata la mia prima ordinazione a tutti gli effetti, per la quale comprai anche del materiale che mi avrebbe consentito di portare a termine l’incarico ricevuto (risme di carta bianca e colorata, colla vinilica, nastri di raso per la realizzazione dei fiocchi).

Continuando a mostrare in giro le mie creazioni, sempre più persone rimanevano stupite, e sempre più persone mi chiedevano se fossero in vendita, perché avrebbero tanto voluto acquistare uno di questi pezzi. E fu in quel momento che decisi di iniziare a vendere queste realizzazioni, che riscontravano sempre più il gusto delle persone”

Da quel punto in poi, come hai organizzato la realizzazione e la vendita?

“Arrivando nel periodo natalizio realizzai una collezione a tema (Babbo Natale, Vasi con rose, Stelle natalizie). E poi sempre in crescenza, proseguendo per le settimane e i mesi, arricchendo le collezioni precedenti con nuovi pezzi, lavorando duramente durante le festività di Natale, San Valentino, Pasqua. E la cosa ha preso sempre più piega.

Ho creato un vero e proprio logo, un vero e proprio nome “Ideecreativedaangelo” (che è quello iniziale, che non ho ancora modificato perché ci sono particolarmente affezionato). Sono diventato sempre più abile ed esperto nella piegatura e nella realizzazione di queste opere (che rappresentano per me la mia valvola di sfogo, un modo con il quale posso esprimere la mia fantasia), tanto che adesso non utilizzo neanche tanto più i tutorial, perché ormai la mente ha acquisito la tecnica e sono in grado nella maggior parte dei casi di progettare determinate strutture e di renderle realtà.”

Ci sono state delle persone in particolari che sono state importanti per portare avanti questa attività?

“Sicuramente devo ringraziare tanto i miei genitori, che sono stati sempre molto fiduciosi in me, e mi hanno sempre appoggiato in qualsiasi idea avessi in merito, anche da un punto di vista economico, non facendomi mai seguire inadeguato o non facendomi mai percepire che quello che stavo cercando di fare fosse sbagliato o esagerato per la mia età.”

“Ringrazio una collega di lavoro di mia madre che è stata particolarmente significativa, in quanto mi ha sempre sostenuto e mi ha sempre dato degli ottimi consigli, primo tra tutti quello di aprire una pagina Instagram con il nome del mio logo nella quale mostrare queste mie opere d’arte.”

“Tengo molto anche ad una mia ex professoressa delle scuole medie, amante anche lei come me delle opere d’arte e in particolari dei manufatti, dei fai-da-te, che ha creduto in me e che mi è stata sempre vicina”

Hai dei progetti futuri?

“Il mio sogno più grande sarebbe arrivare a mostrare i miei origami 3D ad una grande platea, come per esempio nelle bancarelle natalizie delle nostre piazze. So che è una cosa molto impegnativa, e che ci vuole tanto lavoro per arrivare a tanto, però ci voglio provare, è l’ennesima sfida con me stesso che non voglio abbandonare a priori senza averci almeno provato.”

Confidiamo che il ragazzo, Angelo Pappalardo, possa riuscire a concretizzare i suoi obiettivi e che un giorno, anche non tanto remoto, possa dire “Ce l’ho fatta!”

Angelo Pappalardo (Liceo delle Scienze Applkicate Margherita Hack)

Non mollate mai… Siete dei geni!

Tante volte ho sentito dire “povero bambino”, tante volte ho visto sguardi tristi per qualche ragazzo o ragazza con disturbi specifici dell’apprendimento. Quanta rabbia dentro di me quando sono arrivate mamme che trattavano i propri figli con DSA come malati. Sono un tutor specialistico per Disturbi specifici dell’apprendimento e sono felice di essere in contatto con questi ragazzi GENIALI!. Sì, geniali, perché per chi non lo sapesse sono ragazzi e ragazze con un normale e a voltealto livello intellettivo! Certo ci sono casi molto diversi tra loro, alcuni dei quali con una maggiore compromissione di natura neurobiologica, dovuta anche ad un fattore di ereditarietà. Però bisogna porre fine agli atteggiamenti discriminatori, quindi proviamo a conoscere meglio i Disturbi specifici dell’apprendimento.

Ve li presento in poche e semplici parole.

Quali sono i DSA?

Un bambino o ragazzo con DSA può avere uno o più disturbi(quando sono più di uno si parla di comorbilità), a seconda della diagnosi degli specialisti preposti a tale indagine (neuropsichiatri infantili, neuropsicologi o logopedisti), e sono:

  • Dislessia
  • Disgrafia
  • Disortografia
  • Discalculia

Ma cosa sono nello specifico?

La dislessia: è un disturbo caratterizzato dalla presenza di difficoltà nella lettura, con errori frequenti ed eccessiva lentezza nel leggere, nonostante il bambino mostri un’intelligenza nella norma o a volte al di sopra della norma. Spesso i primi indicatori della dislessia si osservano con l’inizio delle scuole elementari, ed è necessario un intervento precoce per favorire un maggior senso di autoefficacia e autostima nel bambino. Riporto di seguito come appare ad un dislessico un testo scritto:

Fonte: Internet

Complicato vero? Chi è normodotato non può comprendere l’ansia e l’angoscia di questi ragazzi, che a volte per non fare una brutta figura si rifiutano di leggere. Ma sapevate che ci sono strumenti compensativi che vanno in loro aiuto? Ebbene sì! I DSA possono usare testi che hanno l’audiolettura, sistemi elettronici che leggono per loro, perché purtroppo questi ragazzi se leggono non riescono a comprendere ciò che leggono, soprattutto perché si stancano facilmente, per cui c’è bisogno di un supporto, o anche una persona, che legga per loro il testo. E vi dirò di più, il ragazzo può prepararsi già molto prima il testo (un testo breve per non farlo stancare) da leggere in classe, in modo tale che sappia gestire il momento. Certo leggerà con maggiore lentezza rispetto agli altri, ma se ci si mostra pazienti e fiduciosi ci riuscirà!

La disgrafia: interessa la scrittura di parole e numericon l’uso del segno graficoche può essere compromesso in modo lieve, medio o grave. La grafia risulta quindi disordinata, difficilmenteleggibile epoco chiara. Sono diversi i fattori che entrano in gioco, i principali sono:

  • Coordinazione occhio-mano.
  • Rapidità motoria.
  • Abilità motorie, come il pattern grafo-motorio, ovvero i movimenti svolti quando si scrive.
  • Capacità visuospaziali.

La scrittura coinvolge un insieme di abilità, che nel bambino disgrafico sono mancanti o carenti, con conseguentedifficoltà nell’apprendimento. Alcune volta questo disturbo si accompagna alla disprassia.

Fonte: Internet

E allora come aiutarli? Anche per i disgrafici ci sono supporti compensati. Eccone alcuni:

  • Quaderni per la disgrafia.
  • Per una corretta impugnare esistono appositi strumenti applicabili a qualunque penna o matita. Sono accessori ergonomici.
  • Matite ergonomiche.
  • Penne ergonomiche.
  • Videoscrittura, con l’ausilio del programma Word.

La disortografia: un disturbo specifico che coinvolge la correttezza della scrittura, cioè l’ortografia, quindi viene meno la capacità di rappresentare graficamente i suoni e le parole della propria lingua. Gli errori più comuni si evidenziano nell’ortografia, nella grammatica, nella morfologia e nella sintassi.

Fonte: Internet

Tra gli strumenti compensativi ci sono:

– Mappe concettuali, schemi e tabelle.

– Programmi di videoscrittura (come Word).

– Software speech-to-speech, cioè programmi che consentono di dettare al PC, ottenendo un testo scritto.

La discalculia:è un disturbo legato alle difficoltà nel calcolo matematico che si manifestano in età evolutiva.

Fonte: Internet

Alcuni strumenti compensativi sono:

  • Calcolatrice classica.
  • Calcolatrice parlante.
  • Tavola pitagorica.
  • Linea dei numeri.
  • Quaderni delle regole e delle formule.

Questa è solo una panoramica generale! Ci sarebbe molto ma molto da dire e da approfondire. Ma a cosa sono dovuti questi disturbi, se non sono legati all’intelligenza generale del soggetto? I disturbi specifici dell’apprendimento rientrano nella categoria dei disturbi di natura neurobiologica, dovuti ad una disfunzione del sistema nervoso centrale, che vanno a gravare su determinate aree dell’apprendimento e che si manifestano nella difficoltà di una lettura fluente e corretta, nello scrivere e nel fare i calcoli.Si possono definire “disturbi” nel momento in cui c’è una diagnosi clinica. Purtroppo però il più delle volte si confondono i disturbi con la disabilità, che sono due cose completamente diverse! E comunque in entrambi i casi bisogna essere inclusivi, affinché questi bambini e bambine, ragazzi e ragazze, ma anche adulti, si sentano parte di un gruppo. La serenità e l’essere accettati sono elementi importanti per loro, perché aiutano il loro neurosistema. Certo sono anche dell’idea che non dobbiamo per forza andare alla ricerca di soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento, non dobbiamo per forza fare una “caccia alle streghe”, anzi bisogna fare molta attenzione, perché non è un gioco sottoporre un bambino o un ragazzo a visite specialistiche stressanti. Innanzitutto la delicatezza e le opportune attenzioni per capire che soggetto abbiamo davanti.

Di seguito riporto un link in cui sono elencati tutti i dislessici più famosi che hanno fatto la nostra storia: https://www.dislessia.tv/dislessici-famosi-attori-artisti-scienziati/.

Inoltre voglio indicarvi alcuni link che riguardano le leggi di cui godono i DSA:

https://www.aiditalia.org/leggi-regionali-sui-dsa
https://redooc.com/it/genitori/consigli-genitori/dsa/normativa-dsa
https://www.anastasis.it/legge-170-dsa/

Il mio pensiero ai ragazzi con DSA…non mollate mai!! Voi siete geni!

A volte mi dispero,

mi vergogno perché non riesco a leggere

le lettere danzano dinanzi ai miei occhi,

e sento le risatine dei miei amici…

allora penso che non sarò mai capace

di fare nulla nella vita

per questa mia maledetta difficoltà!

Ma un giorno una persona mi ha guidato

mi ha detto che io sarei riuscito a leggere

e a comprendere come tutti gli altri!

E con tanto lavoro,

piano piano, sono riuscito

…e oggi non ho più paura!

Monica Cocciardo (articolo) – Carlotta Ciccarelli (disegno)

Tina Anselmi

Un nome battagliero e una vita al servizio della democrazia

Martedì, 25 aprile 2023: Giornata della Liberazione.

Per alcuni giovani studenti, un semplice e fantastico ponte. “Beati noi che abbiamo avuto una giornata di vacanza, evviva i partigiani!!”.

Per l’occasione, sul primo canale della Rai, tra i pochi canali principali ad aver voluto essere in tema, è stato trasmesso il film biografico su Tina Anselmi, una ex-Ministra del Lavoro e della Salute di un governo passato.

Perché mai ci dovremmo interessare alle vicende passate di una ministra?

Perché, a nome di questi partigiani del secolo scorso, riceviamo in regalo una vacanza? 

“Bella Ciao”, una bella canzone, orecchiabile, l’avevano cantata loro per primi!              

Chi festeggia ancora la Liberazione, i vecchi patriottici che si radunano sulla piazza della Prefettura? Ha senso ancora festeggiare?

Proviamo a pensare. Abbiamo questa libertà, dopotutto.

La nostra Tina fu un’adolescente in una provincia modesta di Bassano del Veneto, nel 1944. Il suo ruolo nel film è interpretato dall’attrice Sarah Felberbaum, nei panni di una sedicenne. Dà all’occhio vedere una donna matura indossare il grembiule scolastico di una studentessa liceale, ed essere trattata come una ragazzina.

Ma possiamo chiudere un occhio, perché le vicende di Tina sedicenne verranno presto accantonate, per dare spazio ai suoi futuri meriti.

Come dire, l’attrice prenderà presto l’età corrispondente alla quarantenne ministra Tina.

Per ordine delle forze tedesche, gli studenti della scuola della giovane Tina furono obbligati a vedere i corpi dei prigionieri impiccati sugli alberi, lungo la strada.

Vittime dell’Operazione Piave 1944 compiuto sull’area del Grappa.

Su un uomo è appesa la targa “BANDITO”.

Una delle vittime fu il fratello di una compagna di Tina, la quale precipitò ai piedi dell’albero, colta dal dolore.

Scena: la ragazza addolorata viene portata via dalle sue compagne, sotto minaccia dei soldati.

Tina si rese conto che le scelleratezze dei nazifascisti arrivavano sempre più vicine a lei,  che fino a quel momento non aveva voce in capitolo, colpendo anche persone familiari. Invece di averne paura, prese atto e si unì ai partigiani come staffetta.

Arrivato il ‘45, l’Italia poteva dirsi liberata e un referendum popolare decretò la repubblica nel 1946.

Tina aveva combattuto per la libertà e la democrazia in Italia. Ancora giovanissima, entrò in politica, decisa a costruire quella libertà e una democrazia effettiva.

“Non c’è democrazia senza giustizia. La gente ha fame, vuole capire o no?” – dichiara la sua collega sindacalista Francesca Meneghin, durante una riunione con la Democrazia Cristiana.

Tina aiutò le operaie delle filande di Castelfranco ad essere consapevoli dei loro diritti. Conseguì una laurea in Lettere, iniziando a fare la maestra. Si mise a disposizione per insegnare l’alfabeto gratuitamente alle donne lavoratrici, facendole solo promettere di mandare le loro future figlie a scuola, proprio come i figli maschi.

“Tutto qui?” – chiese incredula un’operaia.

“Un’altra cosa: siamo tutte nate sotto il fascismo, ed abbiamo lottato per la democrazia, che è la forma di governo più bella che c’è!” – Tina fece una pausa – “Ma anche la più faticosa, perché vuol dire che tutti noi dobbiamo fare qualcosa, nessuno di noi si può disinteressare”.

Era più comodo seguire le regole della dittatura fascista, piuttosto che darsi delle proprie regole. Si rimaneva beati nell’ignoranza e nell’indolenza, eppure facilmente vittime di cattive decisioni prese da un uomo forte.

L’Italia democratica si costruisce con il lavoro e l’istruzione di ciascun cittadino, cosicché il potere decisionale passa attraverso setaccio di più persone volenterose e competenti.

Il ’76 vide la sua prima Ministra del Lavoro del lavoro donna in Tina.

Scena: la nipote di Tina legge il giornale. “La Ministro al Lavoro”.

E grazie alla sua voce venne garantito per legge alle donne il principio delle pari opportunità, fu abolito il licenziamento per matrimonio o gravidanza e fu garantita stessa retribuzione nello stesso.

Tina fu di seguito anche Ministra della Salute.

Dopotutto, non c’è lavoro fatto bene senza la propria salute.

A lei dobbiamo la riforma Basaglia, che chiuse i manicomi e restituì dignità ai malati di mente, l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), il riconoscimento delle malattie del lavoro come l’asbestosi, la scelta dell’aborto non negata (detto da lei, fervente cattolica).

Aveva ben inteso che la religione non fosse una questione politica, e che la politica fosse un affare concreto, laico e materiale basato su esperienze attuali dell’umanità, le quali possono cambiare con la storia. Dobbiamo ricordarci che uno Stato di legge nasce dalle nostre convinzioni morali messe su carta, non viceversa.

L’81 sconvolse la politica italiana e l’opinione pubblica: venne a galla una lista lunga, ma incompleta di membri di una loggia massonica, la Propaganda Due (P2). Fu una sorta di rete sociale che mirava a dirigere uno Stato nello Stato, tessendo contatti tra diverse figure fra cui politici di alto rango, banchieri e militari dei servizi segreti.

L’organizzazione occulta fu campeggiata da un certo Licio Gelli, di passato fascista e fu sospettata di aver fomentato il terrorismo nero nell’Italia degli Anni di Piombo. L’obiettivo finale della loggia sarebbe stato quello di creare uno Stato autoritario mediante l’utilizzo dell’informazione e della sua rete di conoscenze.

Lo stesso anno venne creata una Commissione Parlamentare d’inchiesta, dalla presidente della Camera dei deputati Nilde Iotti. A capo venne nominata Tina Anselmi.

“Dalla fine degli anni ’60 l’Italia diventa il paese dei misteri irrisolti” – Tina commentò con la sua ex-collega sindacalista di una vita. Le stragi e gli assassinii sembravano tutti collegarsi in qualche modo alla P2 – “Da giovani pensavamo che bastasse votare per vivere in un paese di vetro”.

“Ma se abbiamo mandato via i fascisti, perché non dobbiamo farcela con questi?” – rispose Francesca con l’impeto di sempre.

Cinque anni dopo, nell’86, venne pubblicata la relazione finale della Commissione da Tina. La giustizia venne lasciata a seguire il suo corso.

La Commissione si sciolse, Tina uscì dal lavoro verso il tardo pomeriggio. Si incamminò su un ponte di Roma, abbassando lo sguardo sorridendo ad un passante che la riconobbe. Proseguì il passo, alternando la borsa dei documenti nell’altra mano per alleviare il peso, con lo sguardo stremato, rivolto nel vuoto, ma pronta a continuare con il suo lavoro da deputata fino al ’92, quando si ritirerò per sempre dalla vita politica.

La giornata della Liberazione sarà forse un semplice ponte. Eppure, potrebbe essere anche un giorno rivolto alla presa di coscienza, al distogliersi dalla monotonia delle proprie abitudini ed accorgersi di quel treno che fischia da lontano:

“Viviamo in uno Stato democratico e abbiamo la libertà di pensare, di agire, di esistere nel benessere, e di criticare lo Stato qualora ce lo neghi! E perché ritorni uno Stato autoritario, coloro che lo desiderano, devono strisciare nel buio tra mille ostacoli legali.”

Nguyen Viet Tung (Liceo delle Scienze Applicate Margherita Hack)

A Vicenza per le gare della Robocup Junior 2023

Il racconto dei ragazzi del Marconi-Hack a proposito della trasferta in territorio veneto

Ci rivolgiamo ai ragazzi che frequentano la classe terza del nostro liceo Hack che hanno superato la fase nazionale della gara di Robcup e che prossimamente prenderanno parte a quella europea: Chiarulli Alessandro, Clemente Giuseppe, Montrone Gabriele, Recchia Mario (partecipanti nella categoria della Rescue Line).

Innanzitutto, ci potreste raccontare in cosa consiste la Rescue Line?

“Generalmente è il completamento di un percorso a ostacoli. In pratica viene posta una linea nera su uno sfondo bianco, e il robot deve seguirla, superando tutte le deviazioni e gli ostacoli che incontra. Infatti, durante la corsa, ci possono essere delle interruzioni di linea, oppure degli ostacoli a terra, o degli ostacoli fisici, che il robot deve aggirare, come per esempio incroci, vicoli ciechi, delle rampe o delle altalene…”

“Il tutto ha un significato profondamente simbolico: la Rescue Line si basa sul fatto che il robot, dopo aver superato tutto il percorso a ostacoli, debba giungere in una stanza, all’interno della quale sono presenti delle palline, che rappresentano le vittime umane che devono essere salvate. Dunque, metaforicamente, lo scopo di questa tipologia di competizione è quello di dimostrare come i robot possano prendere delle decisioni e possano intervenire in modo efficace nella vita umana e nei suoi problemi, arrivando a fare cose che l’uomo non sarebbe in grado di fare”

“Nella stanza di evacuazione, quella dove deve arrivare il robot, ci sono 3 palline, di cui due argentate che rappresentano i feriti ancora vivi, e una nera che rappresenta la vittima morta. Il robot ha il compito di trasportare le 2 palline argentate nella zona verde, nella quale ci sono i vivi, e di trasportare quella nera nella zona rossa, che è quella dove vengono portati i morti.”

E poi aggiungono: “A partecipare a questa competizione c’erano ben 80 squadre, provenienti da tutta Italia, e l’obiettivo dei 3 giorni era di qualificarsi per la gara finale, che si è tenuta il sabato.

Ogni giorno, attraverso le gare, veniva effettuata una sorta di “scrematura”, fino ad arrivare alla fase finale, alla quale avrebbero potuto accedere solo le prime 15 squadre nella classifica, realizzata mediante i vari punteggi accumulati durante le fasi di scontro.”

Quali sono stati gli orari della trasferta?

“Quando siamo partiti, essendo molto presto, abbiamo dormito un po’, visto il sonno arretrato.” Abbiamo cominciato il nostro viaggio alle 4:15; durante il viaggio ci siamo fermati tre volte ad un autogrill”

Siamo arrivati a Vicenza alle 15:00, il pullman ci ha accompagnati direttamente in hotel, nel quale siamo entrati alle 18:00.

Per il ritorno, siamo partiti intorno alle 14:00, quindi subito dopo le gare finali, e siamo giunti a Bari intorno a mezzanotte.

Cosa avete fatto appena arrivati?

Il primo giorno i capisquadra di entrambe le categorie si sono riuniti per ritirare le autorizzazioni e informazioni necessarie allo svolgimento delle gare.

“In questo contesto ci siamo dovuti confrontare anche con l’accento veneto dei giudici, il quale è molto differente dal nostro e a volte facevamo fatica a comprenderli.”

Come si sono svolte le vostre giornate?

“Le nostre giornate si svolgevano in questo modo: la mattina si gareggiava dalle 8:00 alle 15:00, per l’ora di pranzo consumavamo un pasto, offerto sempre dagli organizzatori di questa competizione, successivamente rientravamo in hotel per lavorare e programmare ed essere pronti, il giorno seguente, a raggiungere un punteggio più elevato, basandoci su quanto appreso dalle gare di quella stessa giornata.”

“Successivamente ci attendeva la cena, e dopo esserci rifocillati in hotel ed essere tornati nelle nostre stanze, continuavamo a prepararci per la gara seguente, lavorando sodo fino a notte fonda”

Quanto durava ogni singola performance? Che cosa siete riusciti ad imparare da ogni singola fase?

“La durata massima di ogni prova era di circa otto minuti, anche se in realtà il robot poteva percorrere tutto il percorso anche in meno tempo. Infatti, a parità di prestazione, e quindi di punteggio, aveva la meglio la squadra che aveva fatto il tutto nel minor tempo possibile.”

A proposito di questo, i ragazzi affermano: “Le prime due giornate sono state abbastanza intense, in quanto nonostante tutto il duro lavoro portato avanti nelle settimane precedenti, ci siamo dovuti destreggiare anche in quella che è stata la fase di adattamento e perfezionamento di alcuni elementi che abbiamo potuto scoprire solo vivendo, fase dopo fase. Dunque, non è corretto pensare che il lavoro di preparazione sia stato l’unica attività portata avanti.

Avete un qualche aneddoto da condividere?

“Sì, ed è qualcosa che non ci scorderemo mai!”

“Le classifiche erano sempre in continuo aggiornamento, in base a quelli che erano i vari calcoli dei punteggi che di volta in volta i giudici facevano.

Una volta giunti in albergo, intorno alle 17:00, dopo la penultima gara, eravamo quarantesimi in classifica. Dopo un po’, intorno alle 19:00, consultando nuovamente il sito ufficiale sul quale era caricata la classifica, abbiamo appreso che eravamo passati al dodicesimo posto.”

“Ovviamente, come potete immaginare, eravamo al settimo cielo, in quanto iniziava ad esserci una speranza di poter partecipare alla competizione finale che si sarebbe tenuta il giorno seguente.

Alla fine, non appena arrivato l’orario di chiusura delle classifiche, eravamo scesi un pò…,

ma eravamo quindicesimi! Questo voleva dire che avevamo passato la selezione e che potevamo gareggiare nella gara finale, anche se veramente per un pelo!”

Come è stato per voi il momento nel quale hanno annunciato i finalisti?

Sapevamo di aver fatto un buon lavoro, ma nel momento in cui hanno nominato al terzo posto la nostra squadra, gli Hackatronici, abbiamo dato sfogo ad un urlo pazzesco, che esprimeva perfettamente la nostra contentezza per il grande risultato conseguito.

“Siamo arrivati terzi, e ciò vuol dire che tutto il lavoro che abbiamo fatto, l’impegno che ci abbiamo messo, la forza e la dedizione che abbiamo dimostrato ampiamente di avere sono state finalmente ripagate con questo ottimo risultato del quale siamo contentissimi e fierissimi di noi stessi.”

Cosa pensate di questa esperienza? Qual è l’obiettivo al quale aspirate?

“E’ stato un percorso molto difficile da portare avanti, un percorso molto duro, travagliato, e sicuramente non privo di ostacoli. Ma siamo stati bravi a tenere duro e ad impegnarci, fino all’ultimo! E adesso possiamo festeggiare, con la coppa in mano, con la mente alle gare europee e con l’aspirazione di poter raggiungere un ottimo posto anche in quell’altro contesto.”

“Per quest’anno, puntiamo ad arrivare ai primi posti anche nelle gare europee. Ma siamo determinati a scalare le classifiche mondiali e ad arrivare ai primi posti nel mondo intero”.

Ci rivolgiamo ad alcuni dei ragazzi della categoria “On stage”.  Come è stato per voi vivere questa esperienza, essendo così giovani, ma evidentemente così pieni di talento?

“Sicuramente è stato un evento che ci porteremo nel cuore. Il fatto di aver condiviso diverse giornate con i nostri coetanei, lontani dalle nostre realtà, di stare a contatto con persone provenienti da ogni parte di Italia, di esserci impegnati duramente e di aver potuto toccare con mano le dinamiche di queste competizioni, è stato qualcosa di profondamente formativo, soprattutto vista la nostra giovane età.”

“ In generale, questa esperienza ha fatto nascere molte amicizie tra di noi, tra i più piccoli che frequentano il primo anno, e i ragazzi più grandi, dai quali abbiamo potuto apprendere tanto.”

Le due squadre, gli Epicurei e i Darwiniani, si sono classificate rispettivamente al sesto e al nono posto. Cosa avete da dire riguardo a questo traguardo raggiunto?

“Abbiamo affrontato il tutto con estrema calma. In generale, siamo comunque molto soddisfatti, perché nonostante la nostra giovane età abbiamo dimostrato un’abilità nella lavorazione e nella programmazione dei robot che neanche noi pensavamo di poter dimostrare. I risultati raggiunti in classifica sono stati abbastanza ottimali, niente male essendo per la maggior parte di noi la prima esperienza di questo tipo.”

“Ovviamente il fatto che la maggior parte degli elementi della squadra fossero di primo superiore, quindi piuttosto giovani ed essendo dunque alle prime armi, ha influito su alcuni aspetti, sui quali avremmo potuto lavorare maggiormente.”

“Quali sono stati i punti di debolezza che non vi hanno permesso di ottenere un punteggio maggiore?”

Ci risponde uno dei ragazzi della squadra dei Darwiniani.

“Il nostro robot, come affermato dai giudici, era ben strutturato, tranne per la carrucola. Durante la sceneggiatura esso avrebbe dovuto percorrere una strada e salvare un uomo che era caduto da un dirupo. Mentre il robot risaliva la corda, dopo aver recuperato l’uomo, si è fermato a metà.”

“Ci sono stati anche altri aspetti che ci hanno penalizzato, ossia il poster e il technical demonstration video, un video dove viene mostrato l’interno del robot, il meccanismo e viene introdotta la sceneggiatura.”

In caso di una futura partecipazione sappiamo che dovremo impegnarci maggiormente su queste due cose, che sono molto importanti per acquisire più punti ai fini di pervenire ai posti più elevati in classifica”

Una ragazza della squadra degli Epicurei afferma anche questo: “Sicuramente l’idea di programmare il nostro robot ,affinché potesse rappresentare quella che è la storia del Piccolo Principe ,è stata un’ottima idea, anche se penso che sarebbe stato ancora meglio se avessimo studiato anche una parte di recitazione umana, che avrebbe fatto in modo di creare una sorta di equilibrio tra gli attori, robot e umani.”

Sappiamo che siete riusciti ad avere l’occasione di visitare un po’ la città di Vicenza. Vi è piaciuta?

“Sì, siamo riusciti a fare un giretto, scoprendo una città molto carina, dove il verde era il colore predominante. Infatti abbiamo potuto notare la presenza di tante piante e vegetali, che suggerivano una sensazione di pace e tranquillità, caratteristiche che abbiamo scoperto essere proprie di Vicenza. Essa è una città monumentale molto antica, infatti abbiamo visitato anche un antico teatro Olimpico, il quale risulta essere il primo teatro stabile coperto in tutto il continente europeo.”

Ed è così che i ragazzi ci lasciano. Ora il prossimo appuntamento che vede la nostra scuola protagonista con la squadra della Rescue Line è dal 7 al 10 giugno per le gare europee, che si terranno in Croazia. Riusciranno i nostri Hackatronici a scalare le classifiche anche in ambito europeo?

Angelo Pappalardo, Sarah Minunno (Liceo delle Scienze Applicate Margherita Hack)

Chi vorrei essere?

La risposta a questa domanda è probabilmente più difficile di quanto si possa pensare.

Sin da piccoli si fantastica sul voler diventare un veterinario, un astronauta, un calciatore, un cantante, tutti lavori in grado di fatti sentire realizzato e popolare, facendo credere a tutti che ciò fosse cosa facile, perché inconsapevoli della fatica che c’è dietro.

Molti, crescendo, forse per carattere o per una gran voglia di organizzare la propria vita sino alla vecchiaia, hanno già le idee chiare su chi vogliono essere, sul percorso di studi da intraprendere, che lavoro vorrebbero svolgere e dove vorrebbero andare a vivere.

Altri si lasciano aperte più strade, in modo da avere sempre un piano B, nel caso in cui l’idea iniziale non dovesse andare a buon fine (e magari anche un piano C).

La verità è che questa è l’indecisione più grande per molti adolescenti, perché convivono giornalmente con continui “se” e “ma”, su cose che potrebbero succedere.

Il 60% dei ragazzi si pone spesso queste domande: “E se non dovessi essere abbastanza bravo per diventare quello che ho sempre sognato? Forse sarebbe meglio cancellare obiettivi troppo alti e lasciarli raggiungere a qualcun altro che ne è sicuramente più capace.”

“E se me ne pentissi? Potrei anche solo provare e nel caso in cui non dovessi riuscirci, non resterei con l’amarezza per non averci provato.”

“E se non ne fossi felice?”

Questa sarebbe un po’ più grave.

Il benessere fisico e mentale è la cosa di fondamentale importanza che ognuno di noi dovrebbe raggiungere nella propria vita, a seguire tutto il resto. Non avrebbe senso fare delle cose che non ci piacciono per anni e anni di seguito.

Si può essere spinti dal desiderio di guadagnare quanto più possibile, facendo un mestiere ben retribuito, ma se accanto ad esso non c’è un minimo di passione, lo ritengo decisamente inutile.

Noi stessi, tante volte, ci rendiamo conto della differenza tra le persone che svolgono quel lavoro o quella attività, perché hanno coltivato una passione e chi lo fa per il dovere di lavorare, come   i professori che amano quello che fanno e riescono a trasferire nell’insegnamento della disciplina, la gioia della professione intrapresa.

Programmare tutto, talvolta, non è sempre la scelta migliore, ci si può sempre proiettare sulle cose che si preferiscono, ma avere dei rigidi piani da rispettare, può essere stressante nel caso in cui le cose non vadano come previsto e ci si demoralizza.

E anche se ci si rende conto, a poco tempo dalla fine, che il percorso intrapreso non è quello che ci gratifica, si è sempre in tempo per cambiare idea e scegliere qualcosa di nuovo, restando con la consapevolezza di averci provato, indipendente dal successo o dal fallimento.

Quindi, non ha senso sprecare il proprio tempo a rincorrere ideali irrealizzabili, piuttosto è bene vivere in un equilibrio che ci renda felice, apprezzando le piccole cose e circondandosi di persone fedeli e che resteranno sempre al tuo fianco.

È meglio che la gente possa ricordare la persona che si è, piuttosto di quello che si fa.

Bisognerebbe tentare di vivere la vita con più leggerezza, facendo esperienze, conoscendo posti nuovi, evitando di pensare alle innumerevoli conseguenze negative delle proprie azioni, accontentandosi di quello che si è in grado di fare, in base alle proprie capacità e seguendo i propri interessi: solo così si può essere veramente felici e soddisfatti.

Valentina Convertino, Martina Barbieri (Liceo delle Scienze Applicate Margherita Hack)

Lo spagnolo: una lingua emergente 

I vantaggi dell’apprendimento della lingua neolatina che negli ultimi si sta diffondendo sempre di più, soprattutto tra i più giovani

Negli ultimi anni nelle scuole i piani finalizzati all’apprendimento delle lingue straniere stanno mutando. In particolare, in molti istituti si sta assistendo ad un fenomeno piuttosto rilevante: la sostituzione dello studio di alcuni idiomi in favore dello spagnolo.

Effettivamente, lo studio e la conoscenza di questa lingua risultano essere, ad oggi, molto più importanti rispetto al passato. Attualmente, lo spagnolo è la seconda lingua più parlata al mondo. Ci sono, infatti, più di 548 milioni di persone che lo parlano ogni giorno. 

Molti mi dicono che lo studio dello spagnolo non è proprio il massimo da un punto di vista lavorativo, e ciò è effettivamente vero. Non è la lingua maggiormente indicata, soprattutto se il ramo intrapreso riguarda il mondo delle produzioni, delle imprese, della tecnologia, dove invece risultano essere più utili lingue come il tedesco o il francese, soprattutto in Europa. 

Ma lo spagnolo ha una marcia in più, e ha tanti buoni motivi per essere studiato e parlato, e sono diversi i suoi punti di forza.

Innanzitutto, derivando dal latino, è una lingua più facile da apprendere per noi italiani, rispetto ad altre. In molti contesti, inoltre, può essere molto conveniente, perché conoscerlo permette di poter comunicare in tantissime aree dell’intero pianeta. Per esempio, come sappiamo, lo spagnolo è rilevante nell’America meridionale. In realtà, anche se siamo abituati ad associare l’altra parte di quel continente, il Nord America e gli Stati Uniti, all’inglese, è importante sapere che anche lí questa lingua neolatina è molto diffusa. Non a caso, proprio negli USA, si è anche sviluppato quello che è noto come Espanglish, una vera e propria fusione tra l’inglese e lo spagnolo. Dunque, soprattutto per chi non è un asso in lingua anglosassone, può fungere da ausilio nella comunicazione. 

Inoltre, per quanto riguarda la sfera dei viaggi, scolastici e non, i numeri afferenti alla selezione delle mete spagnole e della “Hispanoamérica” sono in crescita. 

Oltre ciò, mi capita molto frequentemente di imbattermi in ragazzi e ragazze molto affascinati da questa lingua. Essa è vista come un qualcosa di fascinoso, in quanto permette di cimentarsi in toni di voce, suoni, vocaboli e modismi, che risultano essere molto accattivanti e stimolanti. In più, per i giovani, l’apprendimento dello spagnolo diviene importante anche per l’aspetto artistico, soprattutto musicale. Molti brani che si ascoltano oggi in radio sono di origine latina, ed è quindi allettante poter comprendere i loro testi e il messaggio che vogliono lasciare agli ascoltatori. I testi delle canzoni spagnole, molto spesso, hanno anche dei bei significati, ed è molto allettante e coinvolgente pensare di poterli capire, e di poter trarre degli insegnamenti morali. Oltre tutto, ci sono tantissimi capolavori della letteratura mondiale scritti in spagnolo, tanti sono stati gli artisti spagnoli che hanno influenzato il loro paese di origine e tutto il mondo in maniera esponenziale. Pensiamo per esempio a Luis Sepùlveda, l’autore della famosissima storia “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, oppure a Antoni Gaudì, il più grande esponente della corrente artistica del Modernismo.

Il mondo spagnolo è un mondo a sé, ricco di storia, di cultura, di tradizioni, di favole e di sogni, e penso che scoprirlo ed entrare a farne parte proprio partendo dalla lingua sia un qualcosa di grande arricchimento.

Angelo Pappalardo

I pidocchi della mente: i DCA.

Il rapporto popolazione-cibo è uno degli argomenti taboo del nostro secolo: siamo passati da scarse provviste di cibo durante la Seconda guerra mondiale a un’attuale disponibilità di alimenti che supera anche il fabbisogno mondiale.

Questo, però, può risultare un’arma a doppio taglio in quanto sono comparse nuove patologie che riguardano soprattutto la sfera psicologica della persona affetta, portando a un pessimo rapporto con il cibo.

Tante sono le volte in cui, guardandoci allo specchio, saltano subito all’occhio tutti quei difetti fisici che ci rendono insicuri e che, per quanto possiamo nascondere, sono sempre lì presenti a ricordarci che, nonostante tutto, siamo umani proprio perché siamo imperfetti.

Ma il più delle volte, questi stessi dubbi su noi stessi sfociando in pensieri intrusivi più grandi della nostra mente, che si aggrappano ai nostri pensieri come dei pidocchi che infestano i capelli, rendendo così la vita abbastanza difficile.

Sono proprio questi pensieri che portano ai DCA, meglio conosciuti come i disturbi del comportamento alimentare: questi sono delle vere e proprie malattie psichiatriche che compromettono la salute fisica e mentale allo stesso tempo.

I disturbi alimentari sono caratterizzati da atteggiamenti dove prevale il controllo ossessivo del cibo, del peso e delle forme del proprio corpo ed è possibile dire che vi sono diversi sottogruppi che si basano su questi stessi comportamenti.

I principali sono l’anoressia, la bulimia e il binge eating disorder, nonché i tre disturbi più conosciuti; tuttavia vi è molta disinformazione dettata anche dall’ignoranza.

L’anoressia è un disturbo caratterizzato da una forte paura d’ingrassare e da un’alterata visione del proprio corpo, portando a gravi restrizioni alimentari o a metodi per compensare ciò che si è ingerito, come eseguire un’eccessiva attività fisica, usare dei lassativi, indursi il vomito o digiunare per periodi prolungati.

Chi soffre di questa malattia, gli anoressici, vivono una vita subordinata al pensiero costante del cibo e pensieri sul proprio corpo, non riuscendo nemmeno più a distinguere le loro emozioni e, di conseguenza, non riuscire più a regolarle. In questo modo il dolore del malato cresce sempre di più e, non sapendo come sfogarlo, compie gesti autolesionistici che portano il paziente a manifestare maggiormente il suo malessere.

La bulimia è, invece, un disturbo caratterizzato da grandi abbuffate (quando una persona perde il controllo nel mangiare e ingerisce grandi quantità di cibo) seguite dal vomito o ulteriori metodi per compensare la grande assunzione di cibo.

Anoressia e bulimia posso definirsi due facce della stessa medaglia in quanto possono essere entrambe riconosciute nello stesso paziente che può presentare alcune fasi anoressiche (caratterizzate da restrizioni) e altre fasi bulimiche (caratterizzate da abbuffate e metodi per compensare).

Il binge eating, infine, si caratterizzata per la presenza di abbuffate che, a differenza della bulimia, non ha comportamenti compensatori, determinando, il più delle volte, un notevole aumento di peso in un periodo relativamente breve.

Dietro a tutte queste malattie che sembrano sottolineare solo un cambiamento fisico, nascondono invece pensieri negativi o traumi passati che portano ad agire in questo modo.

Per il caso del binge eating, magari, il più delle volte si tenta di risanare col cibo un vuoto o una perdita avuta, passata o attuale essa sia.

Per l’anoressia e bulimia, si risale solitamente a modelli errati e divulgati ovunque, osannandoli come esempi da seguire, quando di esempio da seguire c’è ben poco.

Si deve superare quel cliché per cui chi ha un bel fisico è sano e felice: essere liberi di fare quel che si vuole porta ad essere sani e felici, di certo non un bel fisico che verrà deteriorato dal tempo.

Bisogna anche superare quel pregiudizio secondo cui i disturbi alimentari sono solo malattie che riguardano l’aspetto fisico in quanto il cambiamento di quest’ultimo sia solo una conseguenza di una serie di atteggiamenti eseguiti da tanto tempo.

L’argomento disturbi alimentari non dovrebbe essere più un taboo, soprattutto in questa generazione visto che oggi oltre il 30% della popolazione ne soffre, anzi, c’è bisogno di una maggiore informazione proprio perché vi è un grande incremento dei casi e bisogna essere informati su tutti gli aspetti di queste malattie.

Non sono da sottovalutate queste patologie perché sono infermità mentali: solo perché un malessere non si vede non significa che non faccia male come un qualsiasi dolore fisico.

Eppure questa concezione al giorno d’oggi è ancora da superare, ma fortunatamente sono stati creati dei centri per DCA per sostenere tutti i pazienti con maggiore difficoltà e anche dei portali online per soccorrere tutti quei malati che, purtroppo, vivono una situazione complicata in famiglia e non ricevono aiuto da nessuno.

Noemi Guerra (Liceo delle Scienze Applicate Margherita Hack)

La “pressione” scolastica

La scuola, il luogo dove tutti gli studenti passano la maggior parte del loro tempo, è diventata man mano fonte di ansia e stress, in grado di danneggiare la salute fisica e mentale di alcuni alunni.

Normalmente dovrebbero sentirsi incoraggiati a crescere, allargare i propri orizzonti e migliorare la propria persona.

In questa società, si è più soggetti a confronti continui, che soprattutto derivano dai social o dai possibili giudizi negativi con cui si viene cresciuti. 

Ognuno inizia a preoccuparsi delle proprie azioni, delle proprie scelte nel caso siano giuste o sbagliate, anche nell’ambito scolastico.

Soprattutto le persone più fragili sono soggette alla paura di fallire, vedendo un voto negativo sul registro e dovendo affrontare le reazioni degli altri o dei propri genitori. Vengono spinti sempre a raggiungere punteggi elevati e a competere contro i compagni, quando questi ultimi dovrebbero aiutare e far parte dei loro momenti di svago che alleggeriscono le giornate. 

Il metodo più semplice per evitare che questo accada è sicuramente quello di studiare, ma non sempre è sufficiente.

Ci sono diverse persone che per quanto tentino di andare bene alle verifiche o alle interrogazioni, per colpa dell’ansia si frenano e non riescono a tirare fuori tutte le informazioni che hanno appreso, mostrando al professore che il loro studio è superficiale. 

Di conseguenza gli altri possono sviluppare un’idea di quella persona diversa da quella che in realtà è.

Anche l’atteggiamento stesso dell’insegnante incide sulla pressione nei confronti dei ragazzi: quanto più sono severi e rigidi più gli alunni risulteranno stressati e impauriti da un possibile dialogo con loro.

Per acquisire sicurezza spesso ci si ritrova a ripetere molte volte sempre la stessa lezione, passando ore e ore sui libri fino a tarda notte per terminare ogni materia. Così facendo però, ci si preclude l’opportunità di praticare sport, coltivare passioni e attività extrascolastiche che sono indispensabili per migliorare l’umore dei ragazzi e la loro autostima, modificando la routine piatta di ogni giorno.

Altre persone ancora sono semplicemente meno portate per lo studio e la scuola limita le loro capacità visibili in altri ambiti, opprimendo la loro creatività.

Una soluzione possibile a questo genere di problemi può essere, da parte dei professori, quella di ascoltare in maniera frequente gli stati d’animo degli studenti, mostrandosi interessati in modo da far sembrare l’ambiente scuola più accogliente e aperto ad accogliere anche gli alunni più ansiosi.

Martina Barbieri, Valentina Convertino (Liceo delle Scienze Applicate Margherita Hack)

Perché no?

Al giorno d’oggi l’orientamento sessuale è uno degli argomenti più citati e gettonati in luoghi pubblici come la scuola o a un aperitivo tra amici che non si vedevano da mesi. L’orientamento sessuale ormai dipende la maggior parte dei comportamenti di una persona nei confronti di un’altra, per esempio, un uomo eterosessuale spesso non viene discriminata perché gli piacciono le donne ma spesso e volentieri una persona gay o lesbica viene discriminata perché non gli piace quella persona o gli piace una persona del sesso opposto al proprio. A molte persone infatti dà fastidio che il proprio figlio sia omosessuale o addirittura i suoi stessi genitori sono dello stesso sesso. Ma perché alcuni pensano che l’umanità possa smettere di esistere se ci fossero solo i gay? Questa cosa è una stupidaggine, è praticamente impossibile poiché solo perché il 10/20% della popolazione mondiale è gay, dunque la razza umana non cesserà all’improvviso di esistere, ci saranno sempre centinaia di ragazze eterosessuali ancora fertili che potranno ancora fare i bambini.

Un’altra cosa che si pensa e che se un ragazzo o una ragazza hanno un genitore maschio e una femmina vada bene solo perché è così. Di recente ho sentito una persona che diceva che se i genitori sono etero va bene anche che maltrattino il figlio/a, ma non è così, assolutamente NO! Se i genitori sono dello stesso sesso, chi se ne frega!!! L’importante è che la coppia e i figli di essa stiano bene che vadano a scuola e escano con gli amici. Perché no? Dopo tutto è questo l’obiettivo degli Stati: fare stare bene le persone, anche quelle che amano persone dello stesso sesso. L’importante è essere felici con una famiglia, con una casa o anche stando solo con quella persona che si ama e si vuole bene. Per queste cose bisogna seguire il cuore non uno stereotipo retrogrado.

Ancora oggi ci sono persone che muoiono per queste cose e ci stanno davvero male come ad esempio una coppia che si voleva bene volevano stare insieme l’uno insieme all’altro: Tigran e Arsen due ragazzi gay che si sono buttati da un ponte e sono morti per stereotipi e pregiudizi. Questa è una foto dei due Pubblicata sui loro profili Instagram prima del gesto estremo.

I due sono morti la sera del 20 ottobre 2022 ma siamo nel 2023, ad aprile 2023, e allora perché succedono ancora questi episodi così brutti ancora oggi? Perché questi stereotipi esistono ancora oggi? L’amore è amore e al cuore non si comanda.

Danilo Pesce (Liceo delle Scienze Applicate margherita Hack)