ALLA FESTA DEI POPOLI PER UN’INTERVISTA DAVVERO SPECIALE

In occasione del primo giorno della tanto attesa Festa dei Popoli, il 26 maggio 2023, al Parco Princigalli, abbiamo avuto l’onore di intervistare Manuela Baffari, la dirigente scolastica dell’I. C. Nicola Zingarelli, che, seduta in prima fila, ha assistito fiera e felice all’esibizione dei nostri compagni e delle nostre compagne.

Sempre gentile e disponibile, ha risposto a tutte le nostre domande.

Eccole per voi, lettori di ZingarelliNews!

Buonasera Preside. E’ da tempo che noi di ZingarelliNews pensiamo di intervistarla e questo pomeriggio di festa ci sembra proprio un’occasione bella! L’abbiamo vista felice, in prima fila, ad applaudire i nostri bravissimi compagni. Che emozioni hanno suscitato in lei i “suoi” ballerini, musicisti e cantanti? Che effetto le fa essere intervistata dai “suoi” giornalisti?

Questa  sera mi avete regalato davvero un momento di grande soddisfazione: sono molto fiera di tutti voi! Quanto a voi giornalisti, sappiate che sono la vostra più grande fan, leggo i vostri articoli e spero che tutti voi continuiate questa bella attività.

Qual  è  stato il momento più bello del nostro spettacolo, secondo lei?

Tutta l’esibizione è stata molto bella e coinvolgente. Il momento che più mi ha emozionato è stato quello in cui i vostri compagni e le vostre compagne hanno riflettuto su tematiche attuali serie e importanti; la danza, il canto e la musica hanno richiamato la bellezza, che dà il coraggio di  andare sempre avanti, anche nelle difficoltà.

Per noi Lei è “la Preside”. Ha sempre esercitato questa professione?

Prima dei diciotto anni, ho lavorato in un teatro in vernacolo e ho dato il mio contribuito come volontaria in un’associazione no profit; poi ho fatto la maestra e da trentuno anni esercito la professione di preside.

Perché ha scelto questa professione? Ha mai pensato di cambiarla?

Vengo da una famiglia di insegnanti e la scuola ha sempre fatto parte della mia vita. Sì, qualche volta ho pensato di cambiare lavoro perché fare la dirigente scolastica è una professione molto impegnativa: è faticoso gestire una  comunità, la nostra scuola, però devo dire che in alcuni momenti è anche bellissimo e dà tante soddisfazioni, come quelle che mi avete regalato oggi.

Che cosa sogna per la nostra scuola?

Il mio sogno è una scuola aperta al territorio, dove i ragazzi, oltre a  studiare, si divertano e siano felici.

Siamo grate per questa bella giornata e questa intervista. Speriamo di incontrarla al più presto in un’altra occasione felice per la nostra scuola e la nostra città.

Vittoria Selvaggiuolo e Nicole Volpetti

Dietro il palco della Festa dei Popoli

Il giorno 26 maggio la nostra scuola “Nicola Zingarelli” di Bari ha partecipato alla Festa dei Popoli, durante la quale gli alunni si sono cimentati in canti, balli, poesie e recitazioni; è stato un progetto molto impegnativo a cui ho partecipato personalmente e che ho apprezzato molto.

Ho seguito diverse prove di canto e alcune di ballo; la canzone che ha accompagnato la danza è stata la nota “Waka Waka”, di Shakira, inno ufficiale dei mondiali 2010 in Sudafrica. Questa canzone è speciale perché è scritta in tante lingue diverse (inglese, africano e spagnolo) e lancia un importante messaggio di solidarietà: il tema principale è la musica a sostegno dell’integrazione. E’ allegra, vivace come l’Africa e trasmette energia e gioia, contribuendo a unire le persone dei diversi paesi intorno alla stessa passione; ed è proprio questo il messaggio che vuole mandare la Zingarelli: diversi ma uniti.

Purtroppo non ho potuto vedere l’esibizione dei miei compagni durante lo spettacolo vero e proprio, perché il grande giorno non sono stata presente, però ho assistito alle prove, e da dietro le quinte ho visto l’impegno e anche la fatica dei partecipanti:  gli sbagli, gli errori, le stesse cose ripetute più e più volte…

Osservando da dietro le quinte ho imparato che l’importante non è solo la bellezza di un lavoro completato, ma il tempo che gli si è dedicato, le rinunce che si sono fatte per curarlo, la pazienza di provare e riprovare per rendere tutto perfetto,  i sacrifici che ognuno è disposto a fare…

La prima prova a cui ho partecipato si è svolta il 26 aprile, con la sezione G, ed era una prova di danza: ogni classe provava dei passi originali come, per esempio, quelli che riproducevano una bicicletta, simbolo dell’importanza dell’aiuto degli altri.

La seconda prova è stata quella di canto: gli alunni di diverse classi, riuniti in un coro, hanno cantato “Supereroi”, anche questa una canzone speciale ed emozionante perché tutti siamo dei supereroi nell’affrontare la vita di ogni giorno….

La parte dello spettacolo che ho apprezzato di più è stata quella recitata: si è trattato di un argomento molto importante, ovvero la terribile situazione delle donne in Iran.

Ragazze di diverse classi indossavano un velo sul capo e una maschera che copriva loro il volto, proprio come accade attualmente alle donne in Iran. Salendo sul palco, le ragazze  si toglievano il velo e la maschera mostrando a tutti di essere donne e di esserne fiere. Hanno letto frasi di giovani donne che sono morte per aver lottato per la libertà, per il diritto al voto, la libertà di pensiero, di religione …

Il significato profondo della Festa dei Popoli non è solo l’unione e la solidarietà, ma anche la libertà e il grande potere di esprimere quello che pensiamo, che non è un diritto che possiedono tutti in questo mondo.

Non dobbiamo mai dimenticare quanto siamo fortunati a vivere in un paese libero: cerchiamo di mettere a frutto la nostra libertà, di usare le parole con consapevolezza, non per insultare o ferire, ma per comunicare e costruire bellezza.

Ringrazio Zingarelli News che dà a tutti noi la possibilità di liberare i nostri pensieri.

Vittoria Vitale

La lotta dei giovani per la parità di genere

In questi giorni siamo stati raggiunti da terribili notizie riguardanti la morte di donne uccise dai loro compagni o mariti e allora in molti  sentiamo la necessità di parlare di parità di genere e dell’importanza della donna nella società.

Cos’è veramente la parità di genere?

La parità di genere è un diritto fondamentale e inviolabile, oltre che la base per un mondo pacifico, ma, nonostante ciò, ancora oggi sono troppe le donne che subiscono discriminazioni e violenze in tutto il mondo.

Purtroppo anche il nostro paese, che ha una costituzione che riconosce la parità tra uomo e donna, è interessato da questo problema. Nel 2020 l’Italia si è posizionata al 76esimo posto nella classifica mondiale elaborata dal World Economic Forum per analizzare il divario di opportunità  tra uomini e donne.

Tale divario è stato misurato in base a quattro fattori differenti ovvero: partecipazione e opportunità economiche, salute,  sopravvivenza ed emancipazione politica.

Tra questi ultimi il dato più preoccupante riguarda, a mio parere, proprio quello della partecipazione economica delle donne: infatti il 61,5% delle lavoratrici italiane non è pagato adeguatamente mentre solo il 22,9% degli uomini subisce lo stesso trattamento. Come si può essere pari se non si hanno le stesse opportunità nel mondo del lavoro? Forse non si vuole che le donne siano indipendenti e occupino ruoli importanti?

Se non è così, perché una donna dedica lo stesso tempo dell’uomo al lavoro e svolge pari mansioni non ha il diritto di essere retribuita quanto lui? Perché quando vediamo una donna a capo di un’azienda rimaniamo ancora perplessi? Perché la parola “chirurga” suona strana? Perché una donna non può essere libera di aspirare ad una carriera lavorativa che la porti a ruoli importanti o prestigiosi, ma ancora deve essere costretta a dividersi affannosamente tra lavoro e famiglia?

La verità è che ci sono tante domande, ma poche risposte.

Poche risposte perché noi spesso non le cerchiamo, ci arrendiamo all’evidenza dei fatti e non facciamo nulla per tentare di cambiare davvero ciò che c’è di sbagliato nella nostra società. Per non parlare di quello che succede alle donne di alcuni paesi come l’Algeria, dove vengono violentate e uccise, come l’ Afghanistan, dove sono “sepolte” in un burqa, o in Iran, dove vengono uccise se una ciocca di capeli esce dal velo…

Ci sono ancora tanti paesi nei quali alle donne non vengono riconosciuti diritti fondamentali: quello allo studio e all’istruzione, quello al lavoro fuori casa, quello di muoversi liberamente, di essere curate, di avere delle leggi che le tutelino.

Condivido in pieno il pensiero di Concita De Gregorio, secondo la quale la parità di genere è ancora lontana soprattutto in alcuni paesi. E’ necessario un radicale cambiamento culturale: “il silenzio uccide quanto un coltello o una pistola……le leggi servono ma non bastano… “Per avere un cambiamento culturale è necessario che si affronti questo argomento a tutti i livelli, nelle scuole, sui posti di lavoro, sui giornali e soprattutto in famiglia. Le donne da sempre educano anche generazioni di uomini. Forse le donne per prime devono interrogarsi sui valori che quotidianamente trasferiscono ai propri figli attraverso le proprie parole o le proprie azioni. Si tratta di scardinare un pregiudizio che fa parte della cultura dell’essere umano… e non è facile. Inoltre, laddove ci sono anche delle leggi a tutela delle donne o siano presenti dei centri antiviolenza, spesso la condizione sociale ed economica di tante donne non permette loro di esserne a conoscenza, di poterne usufruire o più semplicemente di vincere la paura e di fare ricorso. Di strada ne è stata fatta tanta, ma, evidentemente non abbastanza.

Adesso a noi, nuove generazioni, portare avanti una seria battaglia che aiuti a raggiungere la completa parità di genere nei paesi più evoluti e che faccia fare un radicale passo in avanti ai paesi nei quali le donne ancora subiscono ciò che non è più tollerabile.

Si parla tanto di globalizzazione, di aiuto reciproco, ma quando si tratta di problematiche sociali importanti come quella della donna tutto si ferma. Chiediamoci perché e forse le cose cambieranno davvero.

Elisabetta Romanini

Alla Festa dei Popoli con Amnesty International.

In occasione della Festa dei Popoli, oltre ad assistere all’esibizione dei ballerini, dei coristi e dell’orchestra del nostro istituto e oltre a visitare i coloratissimi stand multiculturali presenti al Parco Princigalli, abbiamo avuto anche una grande occasione: quella di parlare con due volontarie dell’associazione Amnesty International!

Siamo stati attratti dalle fotografie e dagli slogano affissi nel loro stand e ci siamo avvicinati con curiosità e interesse. Le due giovanissime volontarie ci hanno spiegato in dettaglio che cosa sia e di che cosa si occupi Amnesty: si tratta della più grande organizzazione non governativa sovranazionale che, a partire dalla sua fondazione avvenuta nel lontano 1961 ad opera dell’avvocato inglese Peter Benenson, si impegna strenuamente nella difesa e nella promozione dei diritti umani sanciti dalla Dichiarazione Universale. Si tratta di un compito davvero arduo, se si pensa che questi diritti, apparentemente imprescindibili e che noi siamo abituati a considerare come “scontati”, in realtà vengono sistematicamente violati ogni giorno praticamente in tutto il mondo. Per fare solo qualche esempio, Amnesty ha organizzato e continua a organizzare campagne per liberare i prigionieri dei regimi totalitari, abolire la pensa di morte, contrastare la discriminazione verso qualsiasi forma di diversità, garantire il diritto alla salute, all’alimentazione, all’istruzione, tutelare i diritti dei migranti e dei rifugiati, impedire i processi ingiusti, porre fine alla tortura e alla violenza contro le donne…

Proprio a proposito di quest’ultimo diritto che tante donne si vedono violato, le nostre interlocutrici ci hanno parlato di un caso esemplare perché capissimo l’importanza della loro azione: il 25 gennaio 2023 la giovane attivista araba Salma al-Shebab è stata condannata a 34 anni di carcere con la sola accusa si aver pubblicato alcuni tweet!

Un altro caso impressionante che ci hanno raccontato è stato quello dei 1386 pacifisti russi che il 21 settembre 2023 sono stati arrestati soltanto per aver osato esprimere la propria opinione sulla guerra in Ucraina.

Alla fine della nostra chiacchierata con loro ci siamo resi conto che, pur non avendo fatto nulla di speciale, siamo stati fortunati a nascere in un paese come l’Italia, dove i diritti umani vengono rispettati dalla maggioranza della popolazione. E ci siamo sentiti in debito nei confronti di tante persone che, come le due volontarie che abbiamo incontrato, sostengono Amnesty International e lottano pacificamente perché certe assurdità non avvengano mai più. Vogliamo farlo anche noi e invitiamo tutti i nostri lettori a farlo, per un futuro migliore.

Luca Antonicelli, Fabrizio Delzotti

Il femminicidio è solo la punta di un iceberg

Negli ultimi anni abbiamo assistito a grandi progressi nella direzione dell’ottenimento della parità di genere: sono stati fatti passi avanti significativi in molti settori, dalle opportunità di lavoro alla rappresentanza politica. Tuttavia, nonostante questi progressi, la parità di genere non è stata ancora completamente raggiunta neppure nei paesi nei quali, come l’Italia, la legge è molto chiara su questo punto.

Uno dei maggiori problemi che persistono è il femminicidio.

Questo fenomeno, purtroppo, continua ad essere presente in molte parti del mondo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa il 35% delle donne nel mondo ha subito violenza fisica e/o sessuale da parte di un partner o di una persona non conosciuta, e in molti casi questa violenza ha portato alla morte.

A mio parere, il femminicidio è solo la punta dell’iceberg di un problema più grande: l’idea che le donne siano inferiori agli uomini. Questa mentalità negativa si manifesta in vari aspetti della vita quotidiana, dal lavoro alla politica, dalle relazioni personali alla cultura popolare.

Ad esempio, le donne sono spesso pagate meno degli uomini per lo stesso lavoro, sono sottorappresentate nei posti di lavoro di alto livello e, inoltre, sono talvolta ancora soggette a molestie sessuali sul posto di lavoro, il che può creare situazioni davvero molto difficili  e sgradevoli.

Inoltre, le donne sono talvolta ancora considerate “deboli” o “eccessivamente emotive”, caratteristiche che le renderebbero  meno adatte per a lavori che richiedono determinazione e capacità di prendere decisioni importanti.

Questo modo di pensare, a mio parere, condiziona ancora molto le donne stesse e, in diversi casi, può anche influire sulla loro scelta di non entrare in politica o di non candidarsi per un posto di lavoro di alto livello.

Insomma, la parità di genere, anche nel nostro paese, è stata raggiunta solo in parte. Ci sono ancora molte sfide da affrontare e molte battaglie da combattere. Dobbiamo continuare a lavorare per creare un mondo in cui le donne e gli uomini abbiano davvero le stesse opportunità e gli stessi diritti, e in cui il femminicidio sia solo un brutto ricordo del passato.

Livio Patruno

Attenti a non cadere nella rete!!

Inutile negarlo: ormai quasi tutti siamo degli Internet Addicted, sempre connessi alla rete, con smartphone o tablet, seduti davanti ad un computer, distesi sul divano con in mano il telecomando della nostra TV multimediale. Oppure siamo chiusi nella nostra cameretta, con cuffie e microfono ed in mano un joystick, per rilassarci dopo una giornata di studio giocando online al nostro videogame preferito in compagnia di perfetti sconosciuti sparsi in ogni angolo del mondo. Loro, però, fanno parte della nostra “squadra”, stesso “team”, con un nickname di fantasia, coinvolti in una frenetica sessione dello sparatutto più alla moda, legati a noi da un’ “amicizia virtuale” che, ormai, ha preso il posto dell’amicizia vera, quella che nasce dalla frequentazione, dal crescere insieme, dal condividere esperienze che resteranno per sempre nella nostra memoria.

Siamo la generazione dei “followers”, dei “like”, di Instagram e TikTok: ci addormentiamo per sfinimento, guardando video su Youtube, con la sveglia già programmata sul cellulare. Al mattino, ancor prima di aprire gli occhi, siamo già con lo smartphone in mano, a controllare le notifiche dei social, a leggere le notizie del giorno o consultare il meteo per sapere se pioverà oppure no. La nostra giornata prosegue, poi, davanti allo schermo di un tablet o del grande monitor tv, che da tempo ha sostituito la lavagna. Se i professori ci interrogano, il nostro voto diventa un numero scritto sul registro elettronico. Per vedere che compiti ci hanno assegnato, non consultiamo il diario, ma un’app sull’iPad. Non abbiamo mai visto un’enciclopedia in vita nostra, ma Wikipedia sappiamo benissimo cosa sia. Per cercare il significato di un vocabolo non perdiamo tempo a sfogliare un dizionario, ma ci basta pronunciare la formula magica “Hey Google” oppure “Hey Siri”. E le nostre presentazioni multimediali, con tanto di colonna sonora, video, foto, sfondi colorati, transizioni tra le slide, sono degne di un Oscar cinematografico se paragonate alle “vecchie” ricerche, fatte di pagine e pagine scritte a mano, abbellite al massimo da un disegno o da qualche immagine ritagliata ed incollata.

Connessi ad Internet e con il nostro smartphone tra le mani, ci sentiamo onnipotenti: crediamo di avere il mondo intero a nostra disposizione, ci sembra di essere liberi… Ci sembra… ma in realtà quella che consideriamo libertà altro non è che una vera e propria schiavitù, una “dipendenza” a tutti gli effetti. Molti di noi, infatti, non riuscirebbero più a fare a meno del proprio smartphone, non saprebbero più vivere senza essere connessi ad Internet, allo stesso modo in cui un tossicodipendente non potrebbe fare a meno della sua dose di droga o un alcolizzato starebbe male se non bevesse il suo drink. Così, senza nemmeno accorgercene, siamo già, o siamo inevitabilmente destinati ad esserlo, tutti affetti da IAD (Internet Addiction Disorder), ovvero la sindrome causata dalla dipendenza dalla rete e dall’utilizzo dei dispositivi ad essa connessi. Una “dipendenza”, infatti, non deriva necessariamente dall’assunzione di droghe o alcool, ma può anche essere “comportamentale”, cioè associata a normalissime attività socialmente accettate, come, ad esempio, fare acquisti, mangiare, dedicarsi allo sport, usare le tecnologie, nel momento in cui tutto questo avvenga in modo esasperato. Infatti l’utilizzo eccessivo e compulsivo di Internet e dei dispositivi con cui siamo connessi alla rete può portare, come del resto ogni altra forma di dipendenza, ad una serie di conseguenze negative sulla nostra salute mentale, sociale e fisica.

Le cause di questa “subordinazione” possono essere diverse, ma spesso sono legate all’ansia, alla depressione, alla solitudine, alla mancanza di autostima o alla ricerca di gratificazione immediata. Così i giochi virtuali, i social network, le chat, lo shopping online, possono diventare fonti di assuefazione, in quanto forniscono un’illusione di controllo, soddisfazione ed appagamento immediato. La dipendenza da Internet può avere conseguenze anche gravi, portando all’isolamento sociale e causando problemi di salute mentale o difficoltà nell’apprendimento. Infatti, una persona che passa gran parte del suo tempo sulla rete tende ad isolarsi sempre più dalla vita reale, evitando di incontrare anche amici e familiari; difficilmente tende a concentrarsi nello studio o sul lavoro, perché la sua mente è costantemente orientata a pensare a ciò che sta accadendo online; si sente ansiosa o stressata quando non è connessa ed avverte un bisogno sempre più forte ed incontrollabile di “collegarsi”; trascura il proprio benessere e tende a privarsi anche del sonno, trascorrendo molte ore al giorno online, spesso fino a tarda notte; rischia di accumulare debiti, facendo shopping o scommettendo online.

È chiaro che coloro che già vivono una situazione di disagio e le persone emotivamente più fragili possono facilmente diventare dipendenti da Internet e venire risucchiati in quel mondo affascinante ma “oscuro”, qual è il web. Per fare un esempio, qualche anno fa si parlava della pericolosità di un gioco online, noto come “Blue Whale”: una competizione “mortale”, articolata in cinquanta livelli, ciascuno con una prova da superare, ovviamente di difficoltà sempre crescente, fino ad arrivare all’ultimo livello, in cui, per dimostrare il proprio valore, il concorrente avrebbe dovuto suicidarsi. A Bari, per fortuna, la Polizia riuscì a salvare in extremis una tredicenne coinvolta proprio in questo stupido passatempo pericoloso, grazie alla segnalazione di alcune amiche di chat. Dalle indagini emerse che la ragazza, da qualche mese, trascorreva molto tempo al cellulare, andando a letto anche a tarda ora, ed era diventata particolarmente taciturna; nell’ultimo periodo, inoltre, raramente usciva di casa; si era fatta dei tagli sulle braccia con la lametta di un rasoio, dicendo ai genitori di essere stata graffiata dal gatto; pubblicava sul suo profilo Instagram immagini angoscianti e scriveva sul suo diario scolastico frasi che rivelavano il suo malessere interiore. Questo ci fa capire quanto la dipendenza da Internet possa essere pericolosa. E trattandosi di una “dipendenza”, venirne fuori non è certamente cosa facile.

La tecnologia deve facilitarci la vita, non renderci schiavi e le amicizie online non possono e non devono soppiantare le amicizie reali. Ovviamente, affinché ciò diventi possibile, dobbiamo essere noi a capire che dei nuovi dispositivi e di Internet dobbiamo farne buon uso, non un abuso, cercando di trovare il giusto equilibrio e mantenendo uno stretto contatto con la vita reale per non rischiare di essere risucchiati dal mondo virtuale. Perciò io credo che, per evitare di diventare anche noi dipendenti dalla rete, dovremmo innanzitutto limitare il tempo che trascorriamo ogni giorno online. Dovremmo, poi, focalizzarci sulla vita quotidiana, dedicando maggior spazio allo sport, alla lettura, alla musica, cercando di socializzare con amici e familiari. Sarebbe importante anche stabilire delle routine per le nostre giornate e, di conseguenza, anche per le nostre attività online, fissando orari ben precisi da rispettare rigorosamente. E, se proprio non siamo in grado di vincere da soli la nostra dipendenza, chiediamo aiuto a dei professionisti per venire fuori da quel tunnel in cui ci siamo cacciati e per riuscire a riprendere, finalmente, il controllo della nostra vita. Utenti competenti e responsabili, e padroni delle nostre scelte.

Niccolò Lorusso

immagine in copertina di Eliana Delzotti

Lucia Annibali e la sua storia di non amore

Non lasciatevi sopraffare da nessuno. Non lasciate che sia lui a imporvi come dovete vestirvi, come dovete pensare, come dovete comportarvi e come dovete essere.

Siate voi stesse fino in fondo come lo sono io adesso. Siate quel che siete e se decidete di cambiare fatelo soltanto perché lo avete deciso voi.”

Questo è il messaggio di vita che Lucia Annibali dedica in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

Effettivamente, chi sarebbe questa Lucia Annibali?

Entriamo nel dettaglio:

Lucia è una giovane avvocatessa civilista che fino a qualche anno fa lavorava nello studio del padre ad Urbino.

Era 16 aprile 2013 quando, tornando a casa dal corso di nuoto, fu sfregiata con dell’acido su viso e mani dall’ex fidanzato, Luca Varani, che aveva ingaggiato due sicari albanesi per aggredirla. La donna aveva già subito delle aggressioni di cui l’artefice era rimasto anonimo, ma che poi si è capito avessero dietro sempre l’ex fidanzato, che voleva assolutamente tornare insieme a lei.

Dopo l’aggressione l’avvocatessa si è sottoposta a più di 20 interventi chirurgici, ricorrendo a pomate e maschere che da una parte lenissero il dolore e dall’altra nascondessero i segni di quanto subito.

Sono passati 10 anni dall’aggressione e 9 anni dalla sentenza seguita al processo contro gli aggressori: 20 anni di reclusione per Luca Varani e 14 anni per i due sicari albanesi.

Adesso Lucia dichiara: “Sono viva e mi sento bella”.

Il 21 novembre 2013 Giorgio Napolitano le ha conferito l’onorificenza di cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica italiana e subito dopo lei ha avuto la forza di scrivere il libro: “Io ci sono, la mia storia di non amore” da cui poi è stato tratto il film interpretato da Cristiana Capotondi.

Anche in seguito alla pubblicazione del romanzo, l’accaduto è diventato un caso mediatico; Luca Varani ha insistito sul fatto che non avesse voluto davvero aggredirla, ma che avesse soltanto provato a sfregiarne la macchina, e che l’aggressione sia stata soltanto un incidente, ma nessuno è riuscito a credergli.

Adesso Lucia ha iniziato una nuova vita a Roma, la carriera di avvocatessa a Urbino non le appartiene più; ora si impegna nell’onorare il suo compito di deputata a favore di donne vittime di uomini violenti, inutili.

La sua storia ci insegna che abbiamo il diritto di sentirci liberi e di fare ciò che in cuor nostro ci sembra più giusto, indipendentemente da quello che pensano o vogliono gli altri.

E si insegna anche che la bellezza esteriore è solo superficiale, mentre quella a cui dobbiamo davvero dare peso è la bellezza interiore, quella dei nostri pregi e dei nostri difetti.

Quelle che seguono sono due frasi di Lucia che ci hanno particolarmente colpito e ispirato:

Tu sei mia può essere forse una frase sussurrata in un momento di intimità, non una realtà che autorizza un uomo a trattarvi davvero come se foste in suo possesso, perché, il possesso è più parente della violenza che dell’amore.”

“Tutto si può superare se si sceglie di essere felice”.

Greta Vincenti, Arianna Agostinelli

Storia di Malala: la donna intraprendente che combatte per l’istruzione

«Un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo», questo è il motto di Malala Yousafzai, divenuta un simbolo e una combattente dell’istruzione.

Da ragazza ricevette il premio Nobel per la pace il 10 ottobre 2014, dopo essere divenuta famosa per il suo blog, nel quale parla di oppressione, di violenza e di ingiustizia.

Ma facciamo un passo indietro raccontando la sua storia.

Malala, figlia dell’attivista e insegnante musulmano Ziauddin e di Toor Pekai, creò il suo blog quando era ancora una ragazzina. Raccontava delle ingiustizie che subiva il suo paese, il Pakistan, a causa dei Talebani, che avevano privato dei diritti le donne e dell’istruzione i bambini.

A 13 anni diventò celebre per questa sua azione; durante le tante interviste che ha rilasciato ha discusso dei diritti all’istruzione e di quelli delle donne e di libertà, ormai del tutto aboliti. Nel suo paese per molti pashtun il giorno in cui nasce una bambina è ritenuto un giorno triste, perché si sa che il ruolo di quest’ultima sarà soltanto quello di sfamare i propri figli; non a caso quando nasce una femmina ella viene nascosta dietro una tenda, mentre quando nasce un maschio tutti escono di casa, vanno in piazza e sparano in aria.

A causa delle sue iniziative e della sua lotta un giorno, mentre tornava da scuola in pulmino con alcune sue amiche e compagne di classe, Malala fu aggredita da un talebano, che cercò di ucciderla sparandole alla testa con un fucile.

Successivamente fu ricoverata all’ospedale “Queen Elizabeth Hospital” di Birmingham.

I talebani credevano di averla messa a tacere, ma in verità la resero ancora più forte e perseverante nel suo lavoro e ora, più che mai, lei continua ad onorare il suo compito.

La storia di Malala ci insegna che non dobbiamo tirarci indietro di fronte alle difficoltà, non dobbiamo lasciarci intimorire dai comportamenti altrui e soprattutto non dobbiamo lasciarci sopraffare da nessuno.

Malala ha capito l’importanza dell’istruzione per ogni bambino e vuole che tutti i ragazzi abbiano un futuro radioso, in cui siano liberi di imparare. Soprattutto le bambine, che non sono libere si andare a scuola ma sono costrette a fare lavori domestici e a sposarsi troppo presto.

Come ricorda una sua celebre frase, al mondo ci sono due poteri: quello di una spada e quello di una penna, ma in realtà ce n’è un terzo più forte di entrambi, ed è quello delle donne.

                                                                                         Greta Vincenti

La Zingarelli in finale alle Olimpiadi del Probelm Solving: grazie Ivan!

Anche quest’anno si sono svolte le Olimpiadi di Problem Solving, una competizione che ha visto impegnati studenti di tutta Italia sia singolarmente che in squadra.

Il nostro compagno Ivan Carlucci, dopo aver superato le selezioni d’istituto, è stato tra i sette ragazzi pugliesi che hanno totalizzato più punti nella fase regionale della competizione individuale, ed è stato, pertanto, è stato ammesso alla finale che si è svolta a Cesena.
Felici e fieri di essere stati rappresentati da lui, abbiamo pensato di farvelo conoscere.

  • Ivan, ci racconti come si sono svolte le giornate che hai trascorso a Cesena per la finale delle Olimpiadi di Problem Solving?

«La professoressa Orlando, la mia famiglia ed io siamo partiti venerdì mattina da Bari, e dopo cinque ore di viaggio in treno, siamo arrivati a destinazione. Abbiamo fatto un giro nella parte vecchia di Cesena e poi abbiamo cenato. Siamo andati a dormire presto e la mattina seguente mi sono iscritto alla gara. All’inizio volevamo guardare un workshop sul “making” dove alcuni gruppi avrebbero dovuto presentare delle loro creazioni, ma purtroppo alla fine è stato rimandato, quindi abbiamo assistito ad un workshop, questo era sul coding, tenuto da bambini della scuola primaria: è stato interessante, un gruppo ha persino riprodotto un carosello su Scratch.

Subito dopo abbiamo pranzato all’università.

In seguito si sono tenute le gare nelle quali, nonostante mi sia impegnato, non sono riuscito a vincere. Sinceramente non so nemmeno come io mi sia piazzato: non ho guardato la classifica in quanto ritengo più importante l’esperienza vissuta, che la classificazione.  Dopo la premiazione sono tornato a Bari in macchina.»

  • Come ti sei sentito a rappresentare un’intera scuola? È stato molto emozionante?

«Ero felice di rappresentare la mia scuola, ma non ho sentito molto il peso di questa responsabilità perché sono riuscito a vivere l’esperienza con leggerezza, godendomela senza stress »

  • Com’è stato il viaggio? Ti sei divertito?

«Il viaggio di andata, come ho già detto, l’ho fatto in treno ed è stato piacevole anche perché ho chiacchierato con la professoressa, con la quale ho un ottimo rapporto di confidenza. Durante il viaggio di ritorno, fatto invece in macchina, ho dormito perché le giornate erano state molto piene e stancanti. Nel complesso mi sono divertito molto.»

  • Come studi la matematica? Hai un metodo particolare? Ti aiuta qualcuno? 

«Non ho un metodo particolare per studiare la matematica, la cosa importante è seguire sempre le lezioni e anche esercitarsi quanto più possibile. Non mi aiuta nessuno, però, quando ero piccolo, mio nonno spesso mi spiegava argomenti che a scuola non avevamo ancora affrontato e quindi alle elementari sono stato, per così dire, agevolato e, soprattutto, dato l’affetto che nutro per il nonno, ho da allora associato la matematica a qualcosa di bello»

  • Come ti senti ad essere arrivato così avanti nelle olimpiadi ma non aver vinto? 

«Subito dopo la prova ero un po’ arrabbiato perché avevo commesso degli errori ingenui nella gestione del tempo e degli esercizi: mi ero reso conto che gli stessi esercizi, se li avessi fatti a scuola senza ansia, li avrei svolti tranquillamente.»

  • Quanto è importante che una persona sviluppi delle capacità logiche?

«A mio parere la logica, il problem solving e il lavoro di squadra, utile per le gare e il lavoro a gruppi, sono tra le soft-skills più importanti, anche nel campo del lavoro e nella vita in generale: saper guardare un problema e saperlo analizzare razionalmente, di qualunque natura esso sia, è la chiave per affrontare non solo lo studio ma anche la vita.»

  • Per concludere, se dovessi dare un consiglio a dei ragazzi incerti sul partecipare o no alle OPS, che diresti loro?

«Di provarci: i test mettono di fronte a quesiti risolvibili senza formule o conoscenze matematiche particolari,; serve solo la capacità di ragionamento e, come ho già detto, è importante svilupparlo perché è utile in molti contesti della vita.»

Ringraziamo moltissimo Ivan Carlucci e siamo tutti fierissimi di lui e del lavoro che ha svolto.

Giovanni Lopez

“Normale non è altro che il nome di un ciclo su una lavatrice”. Riflessioni di una tredicenne che ama la perfezione

La nostra società si basa su stereotipi, uno di questi è il concetto di normalità: un’etichetta che fa riferimento a comportamenti, idee, caratteristiche che vengono definite o considerate “adeguate” e quindi giuste.

Oggi, a tredici anni, anche grazie alle esperienze vissute in questi tre anni di scuola media, posso affermare che la “diversità ”  nel vestire, nel modo di essere  o di vivere può essere ed è un valore.

Uno dei miei più cari amici è un ragazzo diversamente abile. Ho frequentato con lui la scuola materna, è autistico.

Ricordo quando aveva delle crisi e perdeva il controllo: non capivamo cosa gli accadesse, e non capire non aiuta mai, neppure quando si è piccoli.

Tutti noi abbiamo imparato, grazie alla sua maestra, al tempo e anche all’affetto che abbiamo ricevuto da lui, che quando aveva questi attacchi dovevamo stare in silenzio. Eravamo piccoli e non riuscivamo a capire bene il perché, eppure lo facevamo.

Di lui, però, non ricordo solo le crisi, ma anche la dolcezza, la bontà, la simpatia, l’ intelligenza e la straordinaria memoria: accipicchia come era a bravo a giocare con il Memory!!! E quanto ci siamo divertiti!

Ebbene, con il percorso che insieme ai miei compagni ho fatto in questi tre anni di scuola media, sono finalmente consapevole, e i comportamenti che adottavo senza comprenderne bene le ragioni, ora li adotto coscientemente: sono certa che qualunque “lui” entrasse a fare parte della nostra classe, del nostro gruppo di amici, noi saremmo in grado di  accoglierlo senza apporgli etichette.

Del resto siamo tutti pieni di pregi e difetti, tutti diversi e al tempo stesso normali: la normalità di ciascuno è la vera normalità, e allo stesso tempo la perfezione!

Questo è il nostro slogan ed è proprio quello su cui abbiamo scelto di lavorare nel bellissimo progetto “Abbecedario della cittadinanza democratica”, al quale la nostra scuola ha partecipato insieme a molte altre scuole di Bari.

In fondo, come ha dichiarato l’attrice Whoopie Goldberg “il normale è negli occhi di chi ci guarda. Normale non è altro il nome di un ciclo su una lavatrice”.

Elisabetta Romanini