Costruiamo ponti, abbattiamo i muri

“L’uomo costruisce ponti ed erige muri”: questa frase mi fa pensare, in senso figurato, a due azioni opposte che l’uomo compie da sempre. Da una parte l’uomo si sforza di “costruire ponti“ per unire popolazioni e culture diverse e per permettere uno scambio di tradizioni, dall’altra parte l’uomo si ritrova a “erigere muri” per separare popoli e probabilmente per allontanare chi considera diverso. Io penso che il motivo principale per cui l’uomo, nella storia, ha costruito tanti muri è la paura di chi è diverso, di chi può essere più forte, di chi può diventare per noi una minaccia. Facendo riferimento a ciò che abbiamo studiato in geografia, ho potuto notare che in alcuni stati coesistono felicemente diverse minoranze e comunità provenienti da altre parti del mondo, mentre in altri Stati l’immigrazione è meno diffusa a causa dei governi che vietano l’ingresso di popolazioni lontane: questi divieti sono la rappresentazione di come l’uomo, attualmente, ”erige muri”.

Nel mio mondo ideale, non ci sarebbero confini, ma solo ponti che permettono scambi culturali e conoscenza di tradizioni lontane e diverse dalle mie.

Sin dalla storia più antica, abbiamo assistito a popolazioni che, per desiderio di potere, cominciavano guerre per sottomettere gli Stati vicini, annientando la loro cultura, le loro tradizioni, la loro lingua, per affermare il proprio predominio e rendere meno potenti popoli che potrebbero costituire una minaccia.

Arrivando alla storia più recente, l’esempio più noto di muro utilizzato per separare popoli è stato il muro di Berlino, eretto nel 1961, dopo la fine della seconda guerra mondiale, costruito per dividere Berlino est da Berlino ovest.

Fu abbattuto nel 1989, dopo anni di rivolta, di sofferenza e di famiglie letteralmente separate da un muro altissimo, foto di odio più che di mattoni. A mio parere, la costruzione del muro di Berlino è stata un’atroce ingiustizia per chi si è trovato a vivere in quelle condizioni.

Nel futuro, spero che l’uomo preferisca sempre più costruire ponti anziché muri, perché non c’è niente di più bello della condivisione, della scoperta e della libertà.

Federico Punzi

La lotta dei giovani per la parità di genere

In questi giorni siamo stati raggiunti da terribili notizie riguardanti la morte di donne uccise dai loro compagni o mariti e allora in molti  sentiamo la necessità di parlare di parità di genere e dell’importanza della donna nella società.

Cos’è veramente la parità di genere?

La parità di genere è un diritto fondamentale e inviolabile, oltre che la base per un mondo pacifico, ma, nonostante ciò, ancora oggi sono troppe le donne che subiscono discriminazioni e violenze in tutto il mondo.

Purtroppo anche il nostro paese, che ha una costituzione che riconosce la parità tra uomo e donna, è interessato da questo problema. Nel 2020 l’Italia si è posizionata al 76esimo posto nella classifica mondiale elaborata dal World Economic Forum per analizzare il divario di opportunità  tra uomini e donne.

Tale divario è stato misurato in base a quattro fattori differenti ovvero: partecipazione e opportunità economiche, salute,  sopravvivenza ed emancipazione politica.

Tra questi ultimi il dato più preoccupante riguarda, a mio parere, proprio quello della partecipazione economica delle donne: infatti il 61,5% delle lavoratrici italiane non è pagato adeguatamente mentre solo il 22,9% degli uomini subisce lo stesso trattamento. Come si può essere pari se non si hanno le stesse opportunità nel mondo del lavoro? Forse non si vuole che le donne siano indipendenti e occupino ruoli importanti?

Se non è così, perché una donna dedica lo stesso tempo dell’uomo al lavoro e svolge pari mansioni non ha il diritto di essere retribuita quanto lui? Perché quando vediamo una donna a capo di un’azienda rimaniamo ancora perplessi? Perché la parola “chirurga” suona strana? Perché una donna non può essere libera di aspirare ad una carriera lavorativa che la porti a ruoli importanti o prestigiosi, ma ancora deve essere costretta a dividersi affannosamente tra lavoro e famiglia?

La verità è che ci sono tante domande, ma poche risposte.

Poche risposte perché noi spesso non le cerchiamo, ci arrendiamo all’evidenza dei fatti e non facciamo nulla per tentare di cambiare davvero ciò che c’è di sbagliato nella nostra società. Per non parlare di quello che succede alle donne di alcuni paesi come l’Algeria, dove vengono violentate e uccise, come l’ Afghanistan, dove sono “sepolte” in un burqa, o in Iran, dove vengono uccise se una ciocca di capeli esce dal velo…

Ci sono ancora tanti paesi nei quali alle donne non vengono riconosciuti diritti fondamentali: quello allo studio e all’istruzione, quello al lavoro fuori casa, quello di muoversi liberamente, di essere curate, di avere delle leggi che le tutelino.

Condivido in pieno il pensiero di Concita De Gregorio, secondo la quale la parità di genere è ancora lontana soprattutto in alcuni paesi. E’ necessario un radicale cambiamento culturale: “il silenzio uccide quanto un coltello o una pistola……le leggi servono ma non bastano… “Per avere un cambiamento culturale è necessario che si affronti questo argomento a tutti i livelli, nelle scuole, sui posti di lavoro, sui giornali e soprattutto in famiglia. Le donne da sempre educano anche generazioni di uomini. Forse le donne per prime devono interrogarsi sui valori che quotidianamente trasferiscono ai propri figli attraverso le proprie parole o le proprie azioni. Si tratta di scardinare un pregiudizio che fa parte della cultura dell’essere umano… e non è facile. Inoltre, laddove ci sono anche delle leggi a tutela delle donne o siano presenti dei centri antiviolenza, spesso la condizione sociale ed economica di tante donne non permette loro di esserne a conoscenza, di poterne usufruire o più semplicemente di vincere la paura e di fare ricorso. Di strada ne è stata fatta tanta, ma, evidentemente non abbastanza.

Adesso a noi, nuove generazioni, portare avanti una seria battaglia che aiuti a raggiungere la completa parità di genere nei paesi più evoluti e che faccia fare un radicale passo in avanti ai paesi nei quali le donne ancora subiscono ciò che non è più tollerabile.

Si parla tanto di globalizzazione, di aiuto reciproco, ma quando si tratta di problematiche sociali importanti come quella della donna tutto si ferma. Chiediamoci perché e forse le cose cambieranno davvero.

Elisabetta Romanini

Alla Festa dei Popoli con Amnesty International.

In occasione della Festa dei Popoli, oltre ad assistere all’esibizione dei ballerini, dei coristi e dell’orchestra del nostro istituto e oltre a visitare i coloratissimi stand multiculturali presenti al Parco Princigalli, abbiamo avuto anche una grande occasione: quella di parlare con due volontarie dell’associazione Amnesty International!

Siamo stati attratti dalle fotografie e dagli slogano affissi nel loro stand e ci siamo avvicinati con curiosità e interesse. Le due giovanissime volontarie ci hanno spiegato in dettaglio che cosa sia e di che cosa si occupi Amnesty: si tratta della più grande organizzazione non governativa sovranazionale che, a partire dalla sua fondazione avvenuta nel lontano 1961 ad opera dell’avvocato inglese Peter Benenson, si impegna strenuamente nella difesa e nella promozione dei diritti umani sanciti dalla Dichiarazione Universale. Si tratta di un compito davvero arduo, se si pensa che questi diritti, apparentemente imprescindibili e che noi siamo abituati a considerare come “scontati”, in realtà vengono sistematicamente violati ogni giorno praticamente in tutto il mondo. Per fare solo qualche esempio, Amnesty ha organizzato e continua a organizzare campagne per liberare i prigionieri dei regimi totalitari, abolire la pensa di morte, contrastare la discriminazione verso qualsiasi forma di diversità, garantire il diritto alla salute, all’alimentazione, all’istruzione, tutelare i diritti dei migranti e dei rifugiati, impedire i processi ingiusti, porre fine alla tortura e alla violenza contro le donne…

Proprio a proposito di quest’ultimo diritto che tante donne si vedono violato, le nostre interlocutrici ci hanno parlato di un caso esemplare perché capissimo l’importanza della loro azione: il 25 gennaio 2023 la giovane attivista araba Salma al-Shebab è stata condannata a 34 anni di carcere con la sola accusa si aver pubblicato alcuni tweet!

Un altro caso impressionante che ci hanno raccontato è stato quello dei 1386 pacifisti russi che il 21 settembre 2023 sono stati arrestati soltanto per aver osato esprimere la propria opinione sulla guerra in Ucraina.

Alla fine della nostra chiacchierata con loro ci siamo resi conto che, pur non avendo fatto nulla di speciale, siamo stati fortunati a nascere in un paese come l’Italia, dove i diritti umani vengono rispettati dalla maggioranza della popolazione. E ci siamo sentiti in debito nei confronti di tante persone che, come le due volontarie che abbiamo incontrato, sostengono Amnesty International e lottano pacificamente perché certe assurdità non avvengano mai più. Vogliamo farlo anche noi e invitiamo tutti i nostri lettori a farlo, per un futuro migliore.

Luca Antonicelli, Fabrizio Delzotti

Il femminicidio è solo la punta di un iceberg

Negli ultimi anni abbiamo assistito a grandi progressi nella direzione dell’ottenimento della parità di genere: sono stati fatti passi avanti significativi in molti settori, dalle opportunità di lavoro alla rappresentanza politica. Tuttavia, nonostante questi progressi, la parità di genere non è stata ancora completamente raggiunta neppure nei paesi nei quali, come l’Italia, la legge è molto chiara su questo punto.

Uno dei maggiori problemi che persistono è il femminicidio.

Questo fenomeno, purtroppo, continua ad essere presente in molte parti del mondo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa il 35% delle donne nel mondo ha subito violenza fisica e/o sessuale da parte di un partner o di una persona non conosciuta, e in molti casi questa violenza ha portato alla morte.

A mio parere, il femminicidio è solo la punta dell’iceberg di un problema più grande: l’idea che le donne siano inferiori agli uomini. Questa mentalità negativa si manifesta in vari aspetti della vita quotidiana, dal lavoro alla politica, dalle relazioni personali alla cultura popolare.

Ad esempio, le donne sono spesso pagate meno degli uomini per lo stesso lavoro, sono sottorappresentate nei posti di lavoro di alto livello e, inoltre, sono talvolta ancora soggette a molestie sessuali sul posto di lavoro, il che può creare situazioni davvero molto difficili  e sgradevoli.

Inoltre, le donne sono talvolta ancora considerate “deboli” o “eccessivamente emotive”, caratteristiche che le renderebbero  meno adatte per a lavori che richiedono determinazione e capacità di prendere decisioni importanti.

Questo modo di pensare, a mio parere, condiziona ancora molto le donne stesse e, in diversi casi, può anche influire sulla loro scelta di non entrare in politica o di non candidarsi per un posto di lavoro di alto livello.

Insomma, la parità di genere, anche nel nostro paese, è stata raggiunta solo in parte. Ci sono ancora molte sfide da affrontare e molte battaglie da combattere. Dobbiamo continuare a lavorare per creare un mondo in cui le donne e gli uomini abbiano davvero le stesse opportunità e gli stessi diritti, e in cui il femminicidio sia solo un brutto ricordo del passato.

Livio Patruno

Storia di Malala: la donna intraprendente che combatte per l’istruzione

«Un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo», questo è il motto di Malala Yousafzai, divenuta un simbolo e una combattente dell’istruzione.

Da ragazza ricevette il premio Nobel per la pace il 10 ottobre 2014, dopo essere divenuta famosa per il suo blog, nel quale parla di oppressione, di violenza e di ingiustizia.

Ma facciamo un passo indietro raccontando la sua storia.

Malala, figlia dell’attivista e insegnante musulmano Ziauddin e di Toor Pekai, creò il suo blog quando era ancora una ragazzina. Raccontava delle ingiustizie che subiva il suo paese, il Pakistan, a causa dei Talebani, che avevano privato dei diritti le donne e dell’istruzione i bambini.

A 13 anni diventò celebre per questa sua azione; durante le tante interviste che ha rilasciato ha discusso dei diritti all’istruzione e di quelli delle donne e di libertà, ormai del tutto aboliti. Nel suo paese per molti pashtun il giorno in cui nasce una bambina è ritenuto un giorno triste, perché si sa che il ruolo di quest’ultima sarà soltanto quello di sfamare i propri figli; non a caso quando nasce una femmina ella viene nascosta dietro una tenda, mentre quando nasce un maschio tutti escono di casa, vanno in piazza e sparano in aria.

A causa delle sue iniziative e della sua lotta un giorno, mentre tornava da scuola in pulmino con alcune sue amiche e compagne di classe, Malala fu aggredita da un talebano, che cercò di ucciderla sparandole alla testa con un fucile.

Successivamente fu ricoverata all’ospedale “Queen Elizabeth Hospital” di Birmingham.

I talebani credevano di averla messa a tacere, ma in verità la resero ancora più forte e perseverante nel suo lavoro e ora, più che mai, lei continua ad onorare il suo compito.

La storia di Malala ci insegna che non dobbiamo tirarci indietro di fronte alle difficoltà, non dobbiamo lasciarci intimorire dai comportamenti altrui e soprattutto non dobbiamo lasciarci sopraffare da nessuno.

Malala ha capito l’importanza dell’istruzione per ogni bambino e vuole che tutti i ragazzi abbiano un futuro radioso, in cui siano liberi di imparare. Soprattutto le bambine, che non sono libere si andare a scuola ma sono costrette a fare lavori domestici e a sposarsi troppo presto.

Come ricorda una sua celebre frase, al mondo ci sono due poteri: quello di una spada e quello di una penna, ma in realtà ce n’è un terzo più forte di entrambi, ed è quello delle donne.

                                                                                         Greta Vincenti

Inclusione… Integrazione… Ma è davvero così?

Dovremmo iniziare a domandarci se tutti i luoghi che frequentiamo sono adatti alle persone con disabilità.

Oggi io e il mio amico Francesco (un ragazzo in carrozzina) vorremmo parlarvi delle difficoltà che si possono incontrare nella vita di tutti i giorni e delle limitazioni fisiche che, pur non influenzando quelle mentali, diventano ostacoli difficili da superare quando devono fare i conti con la disorganizzazione di ambienti che non considerano la disabilità.

Infatti le vere limitazioni sono quelle dei posti che non permettono alle persone come Francesco di vivere come tutti noi e che spesso le costringono a rinunciare ad esperienze importanti.  

Per questa ragione abbiamo deciso di rilasciare un’intervista, in cui io, Luca, rivolgerò delle domande a Francesco, mio compagno di classe.

Luca: Francesco, ti è mai capitato di avere delle difficoltà nella vita di tutti i giorni?

Francesco: Sì, e le mie difficoltà partono già da casa. Nel mio palazzo ci sono due ascensori, di cui uno è bloccato da più di un mese. Se si blocca l’altro, rischio di rimanere chiuso in casa e di non poter andare a scuola, a fare fisioterapia…

L: Frequenti gli stessi luoghi che frequentiamo noi?

F: Si, ma spesso mi capita di dover lasciare fuori la carrozzina perché i passanti mi impediscono il passaggio. Altre volte ci sono pochi parcheggi dedicati alle persone con disabilità e questo costringe i miei genitori a parcheggiare l’auto lontano dal luogo che dobbiamo raggiungere e può essere molto faticoso spostarsi con la carrozzina tra auto in doppia fila e marciapiedi stretti.

L: Ti sei mai sentito discriminato e diverso?

F: Ora molto meno, ma prima di più perché non riuscivo a praticare il mio sport preferito, il calcio. Ora, invece, ci penso molto meno perché pratico il nuoto, uno sport che trovo  stupendo e che mi fa sentire a mio agio.

L: Qualcuno ha mai espresso considerazioni sul fatto che secondo l*i potessi avere difficoltà anche mentali?

F: No, non mi hanno mai detto niente perché vedendomi capiscono subito il tipo di difficoltà che ho e spesso mi dicono anche che sono molto intelligente. Del resto a scuola faccio le stesse cose che fanno i miei compagni, solo in alcuni casi in modo un po’ “adattato” alla mia condizione.

L: C’è mai stato qualcuno che ti ha discriminato per la tua condizione?

F: Per fortuna no e spero che non mi capiti mai. Sono convinto che se tutti i luoghi fossero davvero accessibili a tutti, anche la disabilità sarebbe meno evidente.

L: Ti è piaciuta questa intervista? Pensi che possa essere utile per suggerire una migliore organizzazione di quei luoghi che diventano inavvicinabili per le persone che vivono situazioni come la tua o simili?                                                                                                                                                      

F: L’intervista mi è piaciuta molto e spero che possa spingerci a prestare maggiore attenzione ai bisogni delle persone con disabilità.  

Luca Florio e Francesco Maria Paciullo.

Quando fuggire è l’unica soluzione

Il 22 febbraio, una barca parte dalla Turchia con a bordo numerosi migranti.

Dopo diverse ore di viaggio, l’imbarcazione ha dei problemie quindi i migranti a bordo si spostano su un caicco e continuano la navigazione verso le coste italiane, precisamente nella direzione della Calabria.

Durante questo secondo tragitto, vengono avvistati dalla guardia costiera italiana che non reputa le persone sulla barca in pericolo.

Giunta la notte, gli scafisti al timone del caicco si avvicinano alle coste italiane, ma durante questa operazione, a causa del basso fondale, provocano danni all’imbarcazione, che comincia ad affondare. I migranti salgono sul ponte, cercando di salvarsi, ma la nave si capovolge e molti di loro finiscono in mare e muoiono; invece, altri riescono ad arrivare sulla spiaggia.

Ci sono state 76 vittime, tra cui donne e bambini.

Su questo argomento ho rivolto alcune domande ad una persona che, per necessità e in un’altra occasione, ha affrontato un viaggio in mare ed è arrivata in Italia.

I: “Quando è arrivata in Italia, come si è sentita?”.

LEI: “Mi sono sentita sola, lontana da casa, in una terra sconosciuta e con persone che parlavano una lingua per me incomprensibile”.

I: “Perché stava venendo qui in Italia?”.

LEI: “Per necessità, perché nel mio paese c’è una guerra in corso e non volevo mettere a rischio la mia vitae quella dei miei parenti”.

I: “Ha notizie dei parenti che sono rimasti nella sua patria?”.

LEI: “No, perché avere notizie durante la guerra è molto difficile; spero che stiano bene”.

I: “È riuscita a trovare la possibilità di mantenersi da sola?”.

LEI: “Inizialmente no, ma poi sono stata aiutata da alcune organizzazioni che mi hanno permesso di vivere con un minimo di tranquillità”.

I: “Adesso si sente a suo agio qui in Italia?”.

LEI: “Sì,perché sto imparando la lingua e sto facendo dei lavoretti per mantenermi”.

Questa breve intervista dimostra come scappare dalla guerra e dalla fame per trovare un futuro migliore sia un desiderio legittimo per ogni persona. Ogni individuo ha il diritto di aspirare ad una vita più serena per sé e per i propri figli.

E noi, i più fortunati, dobbiamo comprendere il motivo che spinge queste persone a intraprendere un viaggio pericoloso in mare e che non si sa neanche se si riuscirà a concludere su una costa.

Non è facile, per chi parte, lasciare la propria patria, i propri beni e i propri affetti; e poi arrivare in una terra sconosciuta e non sapere neanche quale sarà il proprio destino.

È per questo che abbiamo il dovere di non lasciaresole queste persone e di aiutarle a costruire un futuro migliore, proprio come quello che vogliamo per noi.

Mai più scarpine e giocattoli sulle rive dei nostri mari!

Claudia Cortone

Lidia Poët

Questo articolo è dedicato alla riflessione sulle conquiste politiche, sociali, economiche del genere femminile, legate alla rivendicazione dei diritti delle donne, tra cui il diritto di voto; ma anche alle discriminazioni e alle violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto. Una delle donne italiane che ha lottato per la parità dei diritti tra uomo e donna è stata Lidia Poët. Ella è stata la prima donna avvocato a chiedere di esercitare l’avvocatura. Nonostante la sua domanda fosse stata accettata, dopo appena tre mesi venne radiata dall’Albo degli avvocati solo perché era una donna.

Anche se molto preparata e competente, questo non era stato sufficiente a superare i pregiudizi comuni del tempo: forse gli uomini si sentivano minacciati dalla figura di una donna forte e indipendente? Infatti, chiesero che venisse radiata dall’Albo perché era inconcepibile che una donna potesse dibattere in tribunale una arringa; non le si addiceva usare toni forti, quello non era ritenuto un ambiente per la donna. Considerando la mentalità del tempo immagino che avrà sentito su di sé i pregiudizi che avevano gli uomini: magari ogni tanto si chiedevano come le donne potessero fare certi lavori, erano convinti che se Dio l’avesse voluta avvocato non l’avrebbe fatta donna. Forse pensavano che non sapesse stare al suo posto oppure si chiedevano cosa le facesse pensare di essere diversa dalle altre donne, un altro pensiero era che anche un assassino avesse il diritto di un vero difensore. Come se tale ruolo potesse essere svolto solo da un uomo e non da una donna. Per fortuna tali pregiudizi non sono riusciti a cambiarla, anzi, dopo esser stata radiata fece ricorso, ma il governo italiano solo dopo decenni di dure battaglie la abilitò all’esercizio della professione forense: ormai aveva sessantaquattro anni. Ma la nostra Poët, che supera il diavolo in furbizia, nel frattempo aveva esercitato con il fratello, Enrico, anch’egli avvocato, prendendo sotto il suo nome casi di persone che non riuscivano a fare sentire la propria voce forte e chiaro, come donne, minorenni e prigionieri.

La Poët ha dedicato la sua vita alla lotta alle ingiustizie. È stata una figura fondamentale per l’emancipazione femminile: sempre in prima linea per difendere i diritti delle donne e dei minori, aveva partecipato a congressi internazionali chiedendo il voto per le donne, si è dedicata ai complessi penitenziari fornendo la base all’attuale diritto penitenziario, il suo impegno non era solo femminista ma per l’intera società. Oggi mi viene spontaneo chiedervi: se la giustizia stessa proibisce ad una donna ciò che naturalmente concede agli uomini come possiamo chiamarla giustizia?

Veronica De Luca

Viva la libertà! Viva l’Italia!

Il giorno 19 aprile 2023 alcuni alunni delle classi terze della scuola Zingarelli e di altre scuole medie si sono ritrovati presso il Comune di Bari per parteciparealla presentazione del libro “O Bella Ciao” con la testimonianza di Michele Mancini, uno dei protagonisti degli otto racconti sulla Resistenza Partigiana.

Gli autori, Lucia Vaccarino e Stefano Garzaro, tra i tanti episodi della Resistenza Partigiana, hanno scelto di narrarne anche uno relativo alla nostra città, dal momento che quello di Bari è stato il primo atto antifascista dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.

L’incontro, organizzato dalla libreria Svoltastorie e dall’ A.N.P.I (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), è stato finalizzato a raccontare le storie di ragazzi che, alla nostra età, combattevano per il futuro dell’Italia e per quei diritti di cui oggi godiamo anche noi.

Durante il dibattito con la scrittrice Vaccarino è emerso che la scrittura di un libro non è un lavoro solitario; infatti, lei e lo scrittore Garzaro hanno collaborato con altri professionisti come per esempio Davide Morosinotto, che la nostra scuola ha ospitato solo qualche mese fa. Quest’ultimo ha consigliato loro di immedesimarsi nei personaggi, di provare a rivivere le loro stesse emozioni per far parte della storia. Per scrivere questo libro è stato necessario ricostruire l’accaduto attraverso la raccolta di molte fonti, tra cui quella del partigiano barese Michele Mancini.

Purtroppo, il signor Mancini, con cui eravamo in collegamento, presto ha dovuto abbandonare la conversazione ma, nonostante sia stato poco tempo con noi, ci ha trasmesso un grande messaggio: “la Repubblica Italiana, uno Stato Democratico libero fondato sul lavoro, si è formata grazie ai sacrifici dei partigiani di cui bisogna fare un gran tesoro. Viva la libertà! Viva l’Italia!”. Egli ci ha riferito che, passati alcuni anni dalla guerra, si rese conto che sarebbe stato importante rendere il suo atto pubblico, così che la sua storia potesse essere tramandata alle giovani generazioni.

È stata una giornata molto interessante in cui abbiamo imparato tanto. Abbiamo innanzitutto scoperto che la Resistenzaè stato un periodo storico molto importante per le donne che, per la prima volta, hanno capito di valere quanto gli uomini. Abbiamo poi capito che rispettando le idee altrui, si rispettano i valori umani. Ma la cosa più importante che abbiamo imparato oggi è il significato della parola “partigiano”: colui che prende parte, che non è indifferente. E i veri cittadini, secondo noi, non devono mai restare indifferenti a quanto li circonda. Infatti, Michele Mancini è stato molto coraggioso nel proteggere la propria città, la nostra città, dimostrandosi grande nonostante la sua tenera età.

Adelinda Vurro e Simona Lombardi

Scegliamo di “prendere parte”! Buon 25 aprile

“I partigiani non sono eroi, hanno solo scelto da che parte stare: la cosa importante è scegliere”, queste sono state le parole di Michele Mancini, ex partigiano che, da dodicenne, ha salvato Bari dall’occupazione tedesca, nel 1943.

Il 19 aprile, nella Sala Consiliare del Comune di Bari, abbiamo avuto il piacere di assistere ad una discussione riguardante il libro di Lucia Vaccarino e Stefano Garzaro “O bella ciao”. Tra le pagine di questa raccolta di storie partigiane spesso poco note, troviamo anche quella di Michele Mancini.

Con un suggestivo discorso, che ha provocato la commozione dello stesso ex partigiano, ci è stata raccontata la situazione di Bari nei giorni subito precedenti e subito successivi all’armistizio dell’8 settembre tra Germania ed Italia: il generale Bellomo, allora garante della sicurezza della città, richiese l’aiuto di tutti i baresi per la difesa del porto, dove si pensava stessero per sbarcare i tedeschi. Quella stessa mattina, cinque ragazzi incontrarono un gruppo di Alpini che affidarono loro la sorveglianza dell’arco di Viale Venezia, ritenendolo un luogo tranquillo, tale da poter essere messo “nelle mani” di dodicenni.

Proprio da lì, inaspettatamente, i tedeschi tentarono, però, di addentrarsi nella città: Michele Mancini, senza pensarci due volte, insieme agli altri ragazzi, scagliò delle bombe a mano contro i carro armati degli invasori: questo gesto viene ancora oggi ricordato come una tra le prime forme di Resistenza in Italia.

Dopo la guerra  Michele Mancini si trasferì in Valle d’Aosta e la sua impresa venne quasi dimenticata; quando tornò a Bari, ormai adulto, si sentì in dovere di portare la sua testimonianza nelle scuole e quindi di renderla pubblica.

Oltre alla presenza fisica di Lucia Vaccarino e a quella di Michele Mancini, in collegamento online, hanno partecipato all’incontro anche diversi esponenti dell’A.N.P.I (Associazione Nazionale Partigiani italiani), che ci hanno parlato del concetto di “staffetta antifascista” e dell’etimologia della parola “partigiano”.

Anche se attualmente non corriamo rischi concreti di ricadere nel fascismo, è importante che la memoria della Resistenza venga tramandata, come in una staffetta, tra le generazioni, affinché conservando il ricordo di ciò che è accaduto, non rischiamo di tornare vittime di un regime. Quanto alla parola partigiano, questa deriva dall’idea del “prendere parte”, che è ciò che ciascuno di noi, sempre, deve fare per essere davvero un cittadino degno di questo nome.

L’A.N.P.I, sfortunatamente, andando avanti col tempo vede i suoi componenti diminuire di numero, in quanto troppo spesso si vede la lotta al fascismo come un argomento lontano dalla vita del cittadino, anche se la nostra stessa repubblica, tra i suoi principi portanti, ha proprio quello dell’antifascismo.

Dunque se qualcuno volesse “prendere parte” alleghiamo il sito ufficiale dell’A.N.P.I: https://www.anpi.it/

Nel frattempo, buon 25 aprile a tutti!

Rebecca  Albrizio

Ivan Carlucci