LO STRANO CASO DELLE 7ETTE puntata n°2

  • Bob ma cosa fai?- il mio tono era incuriosito, ma piuttosto seccato.
  • Ti volevo solo salutare…- disse abbassando il capo, dispiaciuto.
    Bob è sempre stato così. Cambia umore se si assume un certo tono con lui. E’ un
    ragazzo credulone, ma molto sensibile. Il tempo di vagare tra i miei pensieri bastò a
    farmi perdere di vista quegli uomini misteriosi: svaniti nel nulla come fumo nel vento.
    Restammo nel cortile a chiacchierare e scherzare, finchè suonò la campanella. Tutti
    si accalcarono come dei bufali imbizzarriti per raggiungere le aule.
    Mi sedetti al mio posto, malandato come sempre, guardando la lavagna vuota che
    dopo tanto tempo era diventata quasi grigia a causa delle valanghe di gesso
    incrostato che le si riversavano sopra ogni giorno.
    Entrò la professoressa di filosofia …
  • Silenzio ragazzi, silenzio! – esclamò, anche se c’era più silenzio del solito.
  • Aprite il libro a pagina 147 – con voce ferma e rauca e gli occhialoni in metallo
    che le cadevano sul naso. Ci fissò.
  • Vi siete mai chiesti come funzioni il nostro cervello?
    Silenzio tombale…
  • Nel 1956 lo psicologo George A. Miller del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Princeton affermò che il numero di informazioni che la nostra memoria processa contemporaneamente è solitamente di sette, più o meno due, dunque in un range che va da cinque a nove, e che tale numero permane costante nel corso della vita di un individuo …
    Sette: un numero magico, interessante!
    Continuò a parlare per quaranta lunghi, lunghissimi e interminabili minuti, sotto gli
    sguardi annoiati dei miei compagni di classe. Fino a quando lo squillo tuonante della
    campanella rianimò la platea come per magia.
    Assorto nei miei pensieri, non capii bene cosa successe dopo.
  • Bob sei veramente uno stupido! – Sentii urlare Marco.
    Eccolo il bullo della scuola, il ganzo dallo sguardo di ghiaccio, e, come se non
    bastasse, figlio della preside! Un ragazzo alto, muscoloso, dai capelli lisci e chiari,
    occhi azzurri e una sfacciataggine inaudita. Mi sono sempre chiesto come mai la
    prepotenza sia sempre accompagnata da massicce fibre muscolari. Certo non sarebbe molto credibile un bullo ossuto e mingherlino!
  • Cosa è successo? – chiesi con tono infuriato.
    Quell’ammasso di muscoli si indispettì a tal punto che mi sollevò da terra. A dire la
    verità in quel momento mi sentii come volare nel cielo. Io, di risposta, provai a
    sferrargli un pugno nella pancia con tutte le mie forze. Ma, proprio in quel momento,
    guarda caso, passò di lì la preside. Il ganzo mollò subito la presa.
  • Cosa sta succedendo qui? – Disse adirata, guardandomi con il suo lungo
    naso bitorzoluto.
  • E’ stato Michele! E Bob! Ahi ahi! – Marco ansimando come un attore di Hollywood, fece credere di essere la vittima della situazione.
  • Bene ragazzini, adesso vi insegno io le buone maniere! – La preside prese me
    e il mio amico per un braccio e ci portò in presidenza.
    Era una stanza austera dall’arredamento classico, ma anche bizzarro. Una testa di
    rinoceronte mi fissava dal muro sopra la scrivania. Un orologio a pendolo dondolava
    scandendo il ritmo della nostra paura e accompagnando il battito impazzito dei nostri cuori. Una clessidra impolverata dominava in mezzo ad una pila di libri ingialliti dal tempo. Fu allora che vidi un foglio sgualcito sotto quel mucchio. Era quasi del tutto coperto e quindi non distinsi bene il contenuto, ma mi sembrò di vedere dei simboli strani: croci, frecce, saette, tutte in fila, messe apparentemente in modo caotico. Mi ricordarono l’antica scrittura dei vichinghi che mi sembrò di aver visto nella biblioteca di mio nonno. Non ebbi il tempo materiale di osservare più attentamente perché la preside cominciò a parlare. Tamburellava nervosamente le dita contro la scrivania senza toglierci gli occhi di dosso. La sua voce era ferma e decisa.
    Non furono chiamati i nostri genitori. A noi non toccò una sospensione o una nota,
    no! La nostra punizione fu quella di rimanere tutto il pomeriggio a pulire cancellini,
    aule e lavagne.
    Il tempo passava lento e le lancette dell’orologio sul muro dell’aula segnavano le
    14:07.
    E’ incredibile come una scuola possa trasformarsi in un luogo tetro e spettrale
    quando viene svuotata della sua anima: gli studenti! Le ombre allungate dal sole
    pomeridiano assumevano l’aspetto di terrificanti figure. Ogni minimo e impercettibile movimento faceva eco e rimbombava nell’immensità dei corridoi …
    Un brivido mi corse lungo la schiena.

Continua.

Mario Panzarino

LO STRANO CASO DELLE 7ETTE

Ciao, sono Michele. Sono un ragazzo normale, o almeno credevo di esserlo fino a qualche
mese fa, quando successe qualcosa di “strano”. Strano forse non è la parola esatta per
descrivere quello che è avvenuto. Strano è ritrovarsi, per esempio, un leone marino in un
bosco o una scimmia al Polo Nord. Quello che è accaduto è qualcosa di straordinario e
pazzesco che nessuno avrebbe mai pensato che si verificasse in una scuola. E non mi
riferisco a un bidello ninja o una professoressa che in realtà non lo è… 
Ma cominciamo dall’inizio.
Era esattamente il mio quattordicesimo giorno di scuola superiore in una città nuova, molto
più trafficata, frenetica e lontana dalla vita del paesino in cui vivevo. Avevo sempre
frequentato le scuole in un posto sperduto, in una chiazza verde che contrastava con i
terreni da pascolo gialli. I colori brillanti della natura abbagliavano e incantavano e l’aria
profumava di fresco. Ricordo ancora il giorno in cui i miei genitori mi annunciarono il nostro
trasferimento…

  • Dai Michele alzati dal letto, il grande giorno è arrivato!
  • Mamma lasciami dormire.
  • Niente discussioni ragazzo, oggi dobbiamo partire per la nuova città.
    Mi alzai di malavoglia dal letto. Era una bella giornata, con il sole alto nel cielo e gli
    uccellini che canticchiavano la loro solita melodia soave. Mi misi in macchina con in mano
    uno dei romanzi gialli che preferivo: “John e il caso irrisolto”, un libro scorrevole e adatto ai
    ragazzi della mia età che parla di un adolescente che riesce a risolvere un mistero lasciato
    chiuso in un cassetto per anni. Il viaggio non fu molto lungo ma riuscii a leggere i primi 7
    capitoli del mio libro. Stavo ormai sonnecchiando, mentre all’orizzonte si notavano le prime
    case.
  • Siamo arrivati! – esclamò mio padre raggiante. 
    La nuova città aveva un’atmosfera più metallica, grandi tronchi di cemento alti otto o nove
    piani (e addirittura, in certi casi anche undici), palazzi luccicanti e moderni, auto scintillanti
    e veloci.
    Al contrario, la mia scuola era un modesto edificio che quasi cadeva a pezzi. La ruggine
    aveva incrostato le pareti e ormai l’intonaco si era sfaldato tutto, come se fosse frolla. La
    porta dell’istituto era in legno di quercia scuro. Era un legno duro, ma, dopo tutti quegli
    anni, era segnato dal tempo.
    Le classi erano simili a quelle del libro Cuore: piccole, spoglie con pochi posti a sedere e
    con banchi in legno.
    Comunque, dopotutto, era l’istituto più prestigioso e importante della città, se non quello
    più antico della regione. 
    Qualche giorno dopo il mio arrivo iniziai a frequentare quel nuovo luogo e a conoscere la
    classe dove mi avevano iscritto, la I B. Ma non sarebbero mancate le sorprese.
    Era un lunedì mattina. Quel giorno a scuola ero arrivato prima del solito. Faceva un po’
    freddo, anche se eravamo a settembre e l’estate non era ancora finita. Non mi portai un
    giacchino e stavo soffrendo il freddo. Certo che lo stavo soffrendo! Ero l’unico sciocco in
    maglietta a maniche corte e pantaloncini. Tutti avevano qualcosa addosso come un
    maglione, una felpa, e alcuni tra i più freddolosi avevano anche indossato un giubbotto
    invernale. 
    Andai verso i miei amici, o meglio, compagni di classe. Infatti non avevo legato con
    nessuno, o forse sì, se legare significa essere preso in giro per poi sentirti dire: “Stavo
    scherzando amico!”. L’unico che si era avvicinato a parlare era Bob. Non era il suo vero
    nome. Si chiamava Roberto, ma tutti preferivano Bob. Non ho mai saputo il motivo di quel
    nomignolo, ma anche i professori lo chiamavano così. Aveva folti capelli rossi ricci e
    corporatura robusta.

Ero seduto su un muretto e vagavo tra i miei pensieri mentre osservavo l’edificio scolastico. Detti un’occhiata all’orologio: segnava le 7:07. A un certo punto, notai sette uomini vestiti in nero che si aggiravano nei corridoi della scuola. Uno di loro tirò fuori qualcosa di luccicante e… “BUONGIOORNOO Michele!”. Mi fece sobbalzare. Era Bob con un sorriso gigantesco a forma di luna stampato in faccia. 

Cosa mai voleva significare quella sua espressione? E chi erano quegli strani individui?

Mario Panzarino

Visualizzazione di immagine.jpg